Milano Nuovo round. Il decimo, il quindicesimo? Si è perso il conto, perché il match va avanti da vent'anni. Berlusconi ieri si presenta sul ring del tribunale di Milano con la grinta da welter incazzoso. Due round uno dopo l'altro: uno in aula davanti ai giudici, l'altro in corridoio con i cronisti. Si dovrebbe parlare dei diritti tv, il processo d'appello che rischia di espellerlo dal Parlamento per via giudiziaria. Ma incombe anche la novità arrivata da Napoli a urne ancora calde, la nuova inchiesta per corruzione e finanziamento illecito, la storia dei tre milioni che il Cavaliere avrebbe dato a Sergio De Gregorio per fargli cambiare casacca, dall'Idv al Pdl. E Berlusconi gioca d'anticipo. Senza neanche aspettare la domanda dei cronisti: «Visto che siamo qui parliamo anche del signor De Gregorio». Un bugiardo, dice il Cavaliere, che avendo paura del carcere «ha barattato la sua libertà» raccontando ai pm quello che volevano sentire. «Una barbarie». «Ho già spiegato che certa magistratura è il cancro della democrazia». E annuncia la manifestazione contro le toghe: «Queste accuse ci porteranno in piazza il 23 marzo».
Dentro, nell'aula della Corte d'appello, si è consumata la prima parte. Berlusconi ha spiegato ai giudici che lui di comprare i film da trasmettere sulle sue reti non si è mai occupato. Tanto che, quando in primo grado gli hanno inflitto quattro anni di carcere e cinque anni di stop dagli incarichi pubblichi, «sono rimasto trasecolato e allibito». Per spiegare che all'epoca dei fatti aveva altro da fare che truccare i conti, snocciola i suoi impegni di capo di governo. Il presidente della Corte, Alessandra Galli, mostra segni di insofferenza. Berlusconi più tardi, parlando con la stampa, la contraccambierà con una mezza frase e una smorfia: «Il presidente? Beh, il presidente... lasciamo stare».
È servito l'intervento in aula di Berlusconi a cambiare le sorti del processo? Di sicuro non ha cambiato l'orientamento della Procura, che subito dopo prende la parola per la stringata requisitoria: il pg Laura Bertolè Viale chiede la conferma integrale della condanna, spiegando che «Berlusconi è sempre stato alla testa della catena di comando del gruppo anche dopo la discesa in campo». Cita Franco Tatò, amministratore delegato di Fininvest quando nacque Forza Italia. «Quella di Berlusconi era l'ultima parola sull'argomento», dice.
Ma mentre in aula si chiede la sua condanna, Berlusconi ha già lasciato il tribunale, dopo un lungo faccia a faccia con i mass media. Qualche battuta sul caso dei diritti tv, per spiegare che se fosse stato davvero socio occulto della ditta che vendeva i film a Fininvest, avrebbe saputo che in Fininvest c'era un manager che pretendeva una stecca del 10 per cento, e lo avrebbe cacciato in tronco; e per spiegare di avere pagato in quegli anni 567 milioni di tasse, «e avrei organizzato tutto questo per risparmiare tre milioni?». Ma il tema caldo è l'indagine di Napoli. Anche qui il Cavaliere gioca d'attacco. Rivela che «recentemente questo signore (De Gregorio, ndr) si era rivolto a noi dicendo di essere pressato dalla Procura e chiedendo aiuti». Aiuti, forse economici, che non ottenne. «Era in difficoltà». E a quel punto, «siccome aveva paura di finire in prigione», avrebbe barattato la sua libertà con i verbali d'accusa. Vuol dire che De Gregorio l'ha ricattato? «Io non mi sono sentito ricattato perché non c'era niente su cui ricattarmi». Berlusconi rifiuta l'idea di un voto di scambio: «Vi ricordo che il governo Prodi non cadde per il voto di De Gregorio ma perché la moglie del ministro Mastella venne raggiunta da un avviso di garanzia».
Al partito di De Gregorio, Berlusconi spiega di avere versato «con documento registrato alla Camera e al Senato», un milione di euro per il lavoro tra i nostri emigrati. Degli altri due milioni, quelli che l'ex senatore dice di avere ricevuto brevi manu, Berlusconi nega l'esistenza: «Oltretutto per me oggi sarebbe impossibile procurarmi una simile somma in contanti». E rifiuta la paternità della cassetta di sicurezza che i pm hanno sequestrato e vogliono aprire. «Non ho cassette di sicurezza». Più in dettaglio, poco dopo, spiega Niccolò Ghedini: «La cassetta di sicurezza non è di Berlusconi ma del Popolo della libertà, ci sono dentro solo dei documenti e abbiamo già spiegato alla Procura di Napoli che se vogliono vedere il contenuto glielo facciamo vedere volentieri senza bisogno di scomodare il Parlamento».
Lo schema difensivo di Berlusconi, insomma, non è dissimile da quello del caso Mills: il suo accusatore è un uomo in difficoltà, che si inventa accuse infondate perché ha paura della Procura e forse deve nascondere altre colpe.
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