
In difesa delle forze dell'ordine sotto accusa per l'uso del taser. Soddisfatto, «meglio tardi che mai», per lo sgombero del Leoncavallo: «e hanno fatto bene a non avvisare il sindaco». Perplesso (a dire poco) su alcuni aspetti dell'inchiesta milanese sull'Urbanistica, «che con Mani Pulite non c'azzecca niente». È un Antonio Di Pietro a tutto tondo quello che risponde alle domande del Giornale dal suo buen retiro di Montenero di Bisaccia, da cui assiste disincantato a storie che riguardano mondi un tempo a lui vicini. «La verità - dice al cronista - è che sto invecchiando: a volte mi capita persino di essere d'accordo con te».
Da vecchio ex poliziotto, come ha reagito all'incriminazione dei carabinieri che hanno usato lo storditore elettrico?
«Con tutta la solidarietà possibile ai carabinieri indagati. Un organo di polizia ha la necessità di avere uno strumento per difendere se stesso e soprattutto gli altri. Tra tutti gli strumenti possibili, il taser è quello più moderno e indicato. Se tecnicamente si può migliorare la tipologia di quest'arma ben venga, se ne faccia carico il ministero degli Interni. Ma smettiamola di criminalizzare gli operatori di polizia che lo usano a tutela di terzi inermi. L'utilizzo del taser è un diritto e un dovere davanti a aggressori che non rispettano le regole: perché proprio questo è il problema di fondo».
Cioè?
«Il rispetto delle regole, che troppo spesso viene a mancare. Io chiedo: perché chi non rispetta le regole deve essere tutelato? È come la storia del Leoncavallo. Si dice che è stata una fucina di culture alternative. Benissimo, ponti d'oro alle culture alternative: purché rispettino la legge. Non è detto che siccome c'è una cultura da portare avanti allora si deve fare violenza ai diritti altrui. Io ho diritto di manifestare le mie idee fino a quando non limito i diritti degli altri. Io non sopporto quelli che in nome delle loro belle idee si sdraiano in autostrada bloccando la strada a gente che va a lavorare. Io ho diritto di lavorare quanto tu di protestare».
Ma dicono che il «Leonka» svolgeva una funzione sociale.
«Allora se la prendano con l'ente pubblico che non ha fornito loro spazi. Ma non si può obbligare un privato a rinunciare ai suoi diritti su una sua proprietà. Certo, se lo sgomberavano trent'anni fa era meglio. Io non condivido questa indignazione della sinistra attuale, tutti che protestano dicendo ma come, proprio adesso che il sindaco stava risolvendo la situazione. Ma quando mai! Sono trent'anni che dicono che la stanno risolvendo, se avessero aspettato un altro anno a sgomberarlo la reazione sarebbe stata la stessa, proprio adesso che c'eravamo quasi. Per loro non sarebbe stato mai il momento giusto. Ribadisco che il ministro degli Interni Piantedosi ha fatto solo il suo dovere, al suo posto avrei fatto anche io la stessa cosa».
Dicono: e perché allora a Roma non si sgombera anche Casa Pound?
«Questa è una obiezione giusta. Ecco, se fossi stato ministro avrei mandato le forze dell'ordine in contemporanea, stessa mattina e stessa ora, a sgomberare Leoncavallo e Casa Pound, se anche lì ci fossero state le condizioni».
Il sindaco di Milano si lamenta che il prefetto non l'ha avvisato delle sgombero. È stato uno sgarbo istituzionale?
«È stata una scelta obbligata. Lo sgombero si è svolto in modo completamente pacifico. Se si voleva trovare il modo di trasformarlo in una mattina di tensione, con la gente assiepata davanti, le scene di persone trascinate via di peso davanti alle telecamere, ecco, allora bastava avvisare prima il Comune. Quando si deve fare una operazione come questa, il minimo sindacale che si chiede alle forze dell'ordine è agire di sorpresa. La sorpresa è tutto, anche per un pubblico ministero. E infatti dico che il governo ha fatto una legge sbagliata».
Quale?
«La norma che impone un interrogatorio preventivo prima di procedere a un arresto. Se ai miei tempi avessi fatto gli interrogatori preventivi non avrei quasi mai trovato le prove dei reati, perché si sarebbero organizzati per farle sparire, sarebbero andati dai complici a organizzare la linea difensiva. Ma ancora più assurdo è che, come è successo a Milano con l'inchiesta dell'Urbanistica, dopo gli interrogatori si possa procedere agli arresti. Dopo che uno è stato arrestato nessuno si fida più di lui, e chi ha le carte le ha messe a posto. Che senso ha arrestarlo?»
L'indagine di Milano è una nuova Mani Pulite?
«Ma che c'azzecca? Mani Pulite partiva da un reato e cercava i suoi autori, si trovava una mazzetta in un conto cifrato o in un water e andavamo a scoprire chi ce l'aveva messa. Qui invece si è individuato un gruppo di potere che esisteva a Milano e si vanno a cercare i reati che può avere commesso. E poi c'è un'altra differenza. Abbiamo scritto milioni di righe e sfido chiunque a trovare nelle nostre parole un giudizio morale, una considerazione ideologica.
Indicavamo i reati, le prove, gli autori, invece qui leggo sui giornali atti dell'inchiesta milanese con giudizi morali, filosofici, di costume e quant'altro che noi non ci saremmo mai sognati di mettere in una nostra richiesta di custodia. No, davvero non è un'altra Mani Pulite».