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Il premier rompe il tabù e lancia la sfida alle toghe

Durissima replica all'Anm che aveva protestato per i tagli: "Ridurre lo stipendio di un alto magistrato non è attentato all'indipendenza. Sono liberi non per i soldi ma per la coscienza"

Il premier rompe il tabù e lancia la sfida alle toghe

Roma - Sforbiciati nei loro stipendi e messi alla berlina nei loro tic: la casta dei magistrati esce assai ammaccata dall' «oraics» di Matteo Renzi. Che li zittisce pure, usando uno dei loro più antichi argomenti: «Mi aspetto che i magistrati non commentino la formazione delle leggi che li riguardano, come io - per rispetto al principio della separazione dei poteri - non commento la formazione delle sentenze». La reazione del presidente dell'Anm è piccata: «Così come si possono commentare e criticare le sentenze, si possono commentare e criticare le leggi». Al premier non è andata giù la reazione corporativa all'annuncio che anche i super stipendi degli alti magistrati sarebbero caduti sotto la scure della spending review, che neanche a loro sarebbe stato permesso di guadagnare più del Capo dello Stato. Mentre il primo presidente della Corte di Cassazione oggi si mette in tasca 70mila euro l'anno più di Giorgio Napolitano, per un totale di 311mila euro.
Nella conferenza stampa di ieri Renzi ha voluto dirlo chiaro e tondo, rompendo un altro tabù della sinistra: «I miei collaboratori mi dicono che non dovrei mai parlare di magistratura in pubblico, ma io lo dico lo stesso perché è giusto - esordisce Renzi – non credo che portare lo stipendio di un alto magistrato da 311mila a 240mila euro sia un attentato alla libertà e all'indipendenza della magistratura. Direi che quella cifra è un equo compenso. Accusare il governo di attentare alla funzione della magistratura per questo è un atteggiamento da respingere al mittente». Una vera e propria intemerata, incassata molto male dalle parti del sindacato delle toghe, l'Anm. Che alla vigilia del decreto governativo aveva firmato un minaccioso comunicato, proprio quello «respinto al mittente» dal premier, denunciando «la gravità di una eventuale iniziativa unilaterale del governo che, senza alcun confronto con le categorie interessate e in via d'urgenza, procedesse a una riduzione strutturale delle retribuzioni». E la nota si concludeva col consueto mantra, ricordando «i principi costituzionali che assistono la retribuzione dei magistrati come garanzia dell'autonomia e indipendenza della giurisdizione». Equazione bislacca e liquidata ironicamente dal premier, che assicura «grande rispetto e stima per i magistrati», ma nella convinzione che essi «sono liberi e indipendenti perché lo sono nella propria coscienza», e non per i 311mila euro annui.
La categoria però è in subbuglio: non solo il governo si è rifiutato di concertare con l'Anm, ma il taglio alle retribuzioni dei più alti gradi rischia di ripercuotersi a cascata anche sui gradi inferiori, e su quegli scatti automatici di carriera che portano i 2040 euro al mese di un magistrato di prima nomina (3.500 con l'indennità) ai 16.700 euro al mese (18.900 con l'indennità) di un presidente di Cassazione.
Fuori dalla mischia, per ora, rimangono i Paperon de' Paperoni che hanno la fortuna di far parte di organismi costituzionali: Consulta, Camera e Senato, Cnel. Gaetano Silvestri (e prima di lui gli innumerevoli presidenti della Corte Costituzionale, tipo Gustavo Zagrebelski) intasca più del doppio di Napolitano: 545mila euro. Ma - e qui iniziano i dolori - la legge del '53 aggancia il suo stipendio a quello del primo presidente di Cassazione, sforbiciato da Renzi. Il quale ha mandato un messaggio che fa fischiare le orecchie anche a chi si credeva al sicuro (il segretario generale della Camera Zampetti, 470mila euro e quella del Senato Serafini a 427mila; i loro vice a 358mila, gli altri alti funzionari sopra i 240mila): «Camera e Senato godono di autodichìa e devono decidere da soli. Ma sarebbe bello se nella loro autonomia riflettessero».

Grasso e Boldrini sono avvertiti.

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