Prigione negata al direttore: avvocati in rivolta contro le toghe

Il giudice Brambilla respinge la richiesta di Sallusti e gli conferma i domiciliari. I penalisti: concedete lo stesso trattamento ai «poveracci»

L'inedito caso di un condannato che vuole andare in carcere e dei giudici che non ce lo vogliono mandare si arricchisce ieri di una nuova puntata: e anche stavolta Alessandro Sallusti deve arrendersi di fronte alla impossibilità - almeno per ora - di andare a scontare a San Vittore la sua condanna per diffamazione, dando così all'intera vicenda l'unico esito (secondo lui) in grado di mettere la magistratura e la politica di fronte alle loro responsabilità. Il giudice di Sorveglianza Guido Brambilla (nel tondo), lo stesso che venerdì scorso aveva mandato il direttore del Giornale agli arresti domiciliari, ieri ribadisce il suo provvedimento: niente carcere. Ma un risultato la singolare battaglia del giornalista lo ha comunque sortito: intorno alla sorte dei tanti condannati qualunque, ai quali non vengono riservati i trattamenti di riguardo offerti a Sallusti, è ormai scontro aperto tra magistrati e avvocati.

La decisione del giudice Brambilla arriva a metà mattinata. L'altro ieri Sallusti attraverso i suoi legali aveva chiesto a Brambilla di tornare sui suoi passi. È la posizione che il direttore del Giornale aveva preannunciato già il giorno della condanna: non voglio trattamenti di favore. Ma la Procura della Repubblica, nella persona del suo capo Edmondo Bruti Liberati, aveva aggirato l'ostacolo, chiedendo di sua iniziativa di trasformare il carcere in arresti domiciliari: non nell'interesse di Sallusti ma in quello delle celle già troppo affollate.

Ed è su questa stessa linea che si attesta ieri il giudice di Sorveglianza: che gli piaccia o no, dice Brambilla, Sallusti deve accontentarsi dei domiciliari, perché la legge applicata nei suoi confronti (il cosiddetto decreto svuotacarceri del 2010) ha il «fine di garantire una migliore organizzazione degli istituti di pena a beneficio dell'intera popolazione carceraria». Così Sallusti resta chiuso nella abitazione milanese della sua compagna Daniela Santanchè, da cui può uscire due ore ogni mattina, in attesa del processo per l'evasione, previsto per domani ma che potrebbe slittare. Sallusti aspetterà il processo, secondo quanto ha assicurato egli stesso, rispettando gli obblighi dei domiciliari. E assistendo - forse con un filo di soddisfazione - al mezzo putiferio che il suo caso sta creando all'interno del Palazzo di giustizia, e che sta diventando anche un caso nazionale: dove gli avvocati penalisti invocano anche per i loro clienti lo stesso trattamento riservato a Sallusti; e l'ala dura della Procura di Milano risponde picche.

Si possono dare d'ufficio gli arresti domiciliari a un condannato che ne aveva diritto ma non ne ha fatto richiesta? Si può sospendere due volte la stessa condanna? L'ufficio esecuzione della Procura di Milano ha sempre risposto di no. Per evitare il carcere a Sallusti, si è dovuto muovere in prima persona il procuratore Bruti Liberati, avocando il fascicolo. I suoi sostituti hanno reagito scrivendogli una lettera riservata per dissociarsi dal trattamento di favore riservato al condannato-vip. Per qualche giorno, i pm hanno ipotizzato di sommergere il tribunale di Sorveglianza con decine di «casi Sallusti», invocando la par condicio. Ieri ci ripensano, e fanno sapere che per gli altri, i detenuti comuni, la linea resta quella vecchia: niente domiciliari, si restano in carcere.

Ma a questo punto a insorgere sono gli avvocati penalisti: l'Unione delle camere penali definisce le dichiarazioni dei pm «un fatto gravissimo», ricorda che il caso Sallusti dimostra che la legge si può applicare anche d'ufficio: e chiede che ciò avvenga anche «per i poveracci che non hanno conoscenza dei propri diritti».

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