«Dove eravamo rimasti?». Con queste parole Enzo Tortora tornava in televisione nel febbraio 1987 dopo essere stato vittima della più sconvolgente vicenda di malagiustizia all'italiana. E proprio Il caso Enzo Tortora - Dove eravamo rimasti? si intitolava la miniserie andata in onda con successo su Raiuno ieri e l'altroieri. Una ricostruzione forse modesta dal punto di vista artistico, come molti hanno fatto notare. Ma in fondo cosa importa se Ricky Tognazzi non sembra a suo agio nei panni del protagonista? Nulla. Conta aver raccontato una storia che illumina non solo il passato ma anche il presente. Infatti lo sceneggiato, che si apre con l'arresto del conduttore di Portobello, avvenuto alle quattro di mattina del 17 giugno 1983, potrebbe anche riferirsi a fatti avvenuti ieri.
Turba scoprire come i momenti salienti della storia non siano lontani dalla cronaca recente e propongano al pubblico temi di stretta attualità. Tortora fu dato in pasto alle telecamere: prima di essere accompagnato fuori dalla questura, con le manette in vista, fu trattenuto sei o sette ore al fine di attendere la luce migliore per le riprese televisive. Ed ecco la giustizia spettacolo.
Prima e dopo questo episodio, vediamo i pentiti, Pasquale Barra in particolare, ma anche Giovanni Pandico e Gianni Melluso, incastrare Tortora, rovesciandogli addosso accuse assurde: essere affiliato alla Nuova Camorra Organizzata e spacciare cocaina. Mancano però riscontri oggettivi, fino a quando non sbuca una agendina appartenuta a un camorrista, contenente nome e numero di telefono di Tortora. Un granchio colossale. Perché, come si appurerà, sulla agendina c'è scritto «Tortona» e l'utenza non appartiene allo showman. L'elenco dei delatori si allunga. Confessando, si ottengono migliori condizioni di detenzione, come scrivevano i giornali dell'epoca, e magari una riduzione della pena. Ed ecco i pentiti a orologeria.
A proposito di giornali. Spesso, nella fiction, irrompono le prime pagine di quotidiani e settimanali. In effetti, le notizie uscivano a getto continuo. Ed ecco la violazione del segreto istruttorio.
Quando Tortora entra a Regina Coeli, a Roma, il pubblico assiste a scene di degrado. Igiene inesistente, affollamento delle celle, detenuti in precarie condizioni di salute. È la situazione cronica di molte prigioni italiane, come ha appena ricordato il presidente Giorgio Napolitano. Ed ecco la questione carceraria.
Nel cortile, durante l'ora d'aria, Tortora viene preso a male parole da un detenuto, il quale gli rinfaccia di avere importanti avvocati alle spalle. Non verrà dunque dimenticato in galera mentre altri rimangono per anni in attesa di giudizio. Ed ecco le lentezze intollerabili dei tribunali.
Tortora fu condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. La Corte d'Appello di Napoli, nel 1986, lo assolse con formula piena. Il conduttore morì a 59 anni, il 18 maggio 1988. Nel 1987, proprio sull'onda del «caso Tortora», fu votato un referendum per estendere la responsabilità civile ai giudici. Passò con l'80 per cento dei suffragi. Il problema si trascina da allora, e se ne parla in continuazione, l'ultima volta questa estate, ma nulla di concreto è stato fatto. Che fine fecero i magistrati di quel processo? Avanzarono in carriera.
L'Italia può ancora specchiarsi nella vicenda Tortora. Dove siamo rimasti? A trent'anni fa.
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