Produttività, la Cgil spiazza Monti e Fornero

RomaIl governo non aveva capito. Non il premier Mario Monti che mercoledì notte è uscito dal tavolo con i sindacati di umore nero pece. Non il ministro Corrado Passera, che fino a poche ore prima scommetteva sul senso di responsabilità del sindacato di sinistra. Spiazzato persino il Capo dello Stato che ieri se n'è uscito con un irrituale «è importante che non manchi il contributo della Cgil».
Ma il principale sconfitto dell'accordo sulla produttività firmato da tutti i sindacati, ma non dalla Cgil, è Elsa Fornero. Il ministro del Lavoro, aveva recentemente teso la mano ai metalmeccanici Cgil parlando alle assemblee della Fiom. La cifra del suo mandato è stata, fin dall'inizio, quella di riportare Corso d'Italia al centro delle relazioni sindacali del governo Monti. Relazioni peraltro ridotte al lumicino.
Il no della Cgil è arrivato proprio per accontentare la Fiom. Il segretario generale Susanna Camusso ha respinto l'accordo che prevede il rafforzamento della contrattazione di secondo livello, cioè aziendale e territoriale nel caso di piccole imprese; limiti e deroghe al contratto nazionale, aumenti di stipendio legati alla produttività con sconti fiscali che il leader della Cisl Raffaele Bonanni ha calcolato faranno pagare ai lavoratori «tre volte meno tasse» rispetto al normale regime fiscale. Scende nei dettagli il segretario generale aggiunto Giorgio Santini: «Ogni mille euro ci sono 170 euro di vantaggio». La Cgil è invece convinta che i lavoratori perderanno soldi. In ogni caso, l'accordo più importante dell'era Monti è diventato una fotocopia di quelli dell'era Berlusconi: sì di Cisl, Uil, Ugl (gli autonomi della Confsal restano i grandi assenti dai tavoli dal governo tecnico), no della Cgil. Fotocopia anche nel merito. L'accordo tra sindacati, Confindustria, Alleanza delle Cooperative, di fatto - ha rivendicato ieri l'ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi - riproduce il famoso articolo 8 «per lo sviluppo degli accordi aziendali e interaziendali» del governo di centrodestra. Prevedeva deroghe al contratto nazionale e fu bocciato dalla Cgil e anche dal Pd.
Per fare rientrare il no di Camusso, Fornero ce l'ha messa tutta. Compresa una pausa di riflessione durante il tavolo di mercoledì. Occasione che il segretario della Cgil non ha colto e che, se possibile, l'ha convinta ancora di più delle sue tesi. Ne ha fatto le spese il premier che, nonostante il no all'accordo, alla fine dell'incontro ha invitato il segretario generale della Cgil alla conferenza stampa. La risposta di Camusso è stata durissima. È arrivata ad accusare l'esecutivo di rappresentare un vulnus democratico.
Ieri l'esecutivo ha gettato la spugna. La «concordia», ha commentato Fornero, «purtroppo non è sempre possibile, dobbiamo considerare i punti positivi che questo accordo ha e il fatto che la stragrande maggioranza delle forze sociali l'abbia ben accolto». E le previsioni catastrofiche delle Camusso sulle buste paga? «Dobbiamo fare in modo che questo non accada e che anche la Cgil se ne convinca».
Il fatto è che il no della Cgil potrebbe essere la premessa per una nuova stagione difficile nelle relazioni industriali. Spiegava ieri una fonte datoriale: la Cgil potrebbe non riconoscere gli accordi per i contratti nazionali, senza recupero dell'inflazione secondo i canoni classici, e scioperare. E questa sarebbe un'ulteriore sconfitta per l'esecutivo tecnico.
Tra chi ha perso al tavolo di mercoledì, non c'è solo il governo. Il no di Camusso è una grana anche per il Presidente della Repubblica che si è sempre speso per riportare la Cgil alle trattative. Linea confermata ieri da Giorgio Napolitano: l'accordo «è comunque un fatto importante. Mi auguro che ci sia un riavvicinamento perché è importante che non manchi il contributo della Cgil».

Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha chiesto che si discuta ancora, «per raggiungere un'intesa più completa, l'anno prossimo», ma ha evitato di affrontare il nodo Fiom. Il tutto senza bocciare una riforma che ricalca quelle del governo Berlusconi. Ha subito approfittato dell'ambiguità lo sfidante alle primarie Matteo Renzi: «Non credo a un potere di veto di un sindacato».

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