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Quando Scalfaro cercò una soluzione politica per chiudere Tangentopoli

Spunta un inedito sull'inchiesta che spazzò via la Prima Repubblica: l'ex capo dello Stato avrebbe inviato il pm Di Maggio in procura a Milano per cercare una via d'uscita politica

Quando Scalfaro cercò una soluzione politica per chiudere Tangentopoli

Le mani di Oscar Luigi Scalfaro su Mani Pulite, la discesa in campo del Quirinale per modificare il corso delle indagini su Tangentopoli e indirizzarle verso una "soluzione politica". A più di vent'anni di distanza dall'indagine che ha spazzato via un'intera classa politica, un brandello di luce arriva - inatteso, e forse per caso - dai margini di un'altra inchiesta, quella in corso in Sicilia sulla presunta trattativa tra Stato e Mafia. Una testimonianza e un pezzo di carta dicono che dal Collle più alto della Repubblica partì tra il 1992 e il 1993 un tentativo di condizionare il corso dell'indagine milanese, e che per questo Scalfaro scelse un suo uomo che facesse da "ufficiale di collegamento" con la Procura milanese.

Scelse un uomo di cui si fidava, e che anche i pubblici ministeri milanesi conoscevano bene, perché era stato a lungo uno di loro: Francesco Di Maggio (nella foto), per anni pm a Milano, poi inviato a Vienna come consulente giuridico presso l'Onu, e ufficialmente rientrato in Italia nel giugno 1993 per essere nominato numero 2 del Dap, la direzione delle carceri. Ma tra i due incarichi, si scopre ora, ci fu una "finestra" in cui nel più totale segreto Di Maggio avrebbe lavorato per conto del Quirinale come rappresentante del Palazzo presso la "giurisdizione Padana", ovvero il pool Mani Pulite. Obiettivo, una "soluzione politica" per Tangentopoli, una via d'uscita che consentisse alla Prima Repubblica - o almeno a una parte di essa - di sopravvivere alle indagini della Procura milanese.

La notizia - che scivola via nell’ultima colonna di un articolo di domenica sul "Corriere della sera" - costringerebbe a riaprire quel pezzo di storia patria, se non altro perché in nessun articolo della Costituzione, del codice o di altre leggi sta scritto che il capo dello Stato possa interloquire in questo modo con la magistratura; né, parallelamente, che la magistratura possa rispondere ad "avances" di questo tipo provenienti dal Colle. Eppure la fonte sembra solida, e per alcuni aspetti incontrovertibile: è lo stesso Di Maggio.

Recentemente il nome di Di Maggio è stato tirato in ballo nell’inchiesta sulla trattativa con la mafia come responsabile dell’allentamento del carcere duro per i boss: ipotesi risultata immediatamente inverosimile e quasi risibile per chiunque l’abbia conosciuto. Di Maggio è morto nel 1996, e quindi non si può difendere. Nessuno dei suoi ex colleghi si è preso la briga di tutelarne la memoria. Così è toccato a suo fratello Tito uscire allo scoperto, documentando la contrarietà di Di Maggio alla linea morbida verso i detenuti di Cosa Nostra.

Ed è Tito Di Maggio, quasi di sfuggita, a raccontare che in realtà il fratello non tornò da Vienna per andare al Dap, ma perché «Scalfaro gli chiese se poteva fare da "trait d’union" con i magistrati milanesi, lui accettò e lavorò a quella soluzione politica di Tangentopoli poi abortita». Di un simile incarico a Di Maggio da parte del Quirinale non si era mai saputo niente. Ma traccia documentale ne emerge in uno scritto del magistrato scomparso: «Qualcuno aveva conservato memoria della mia assiduità al lavoro, e concepito di affidarmi le funzioni di ufficiale di collegamento tra la giurisdizione Padana e il Palazzo». Singolare, nel racconto di Tito Di Maggio, l'origine dei rapporti privilegiati tra suo fratello e Scalfaro: "L'aveva conosciuto quando lui faceva il pm a Milano e aveva raccolto le confessioni di Angelo Epaninonda, il quale chiese protezione per i suoi familiari; Franco investì della vicenda il ministro Scalfaro che tramite il cardinal Martini trovò rifugio ai parenti del boss in un istituto religioso. Da allora nacque un rapporto di stima di cui il presidente si ricordò all'inizio del 1993 quando l'inchiesta Mani Pulite stava creando grossi problemi alla politica".

Tutto avviene dunque in un arco di tempo breve: nel maggio 1992 Scalfaro diventa presidente, ma - stando al racconto di Tito Di Maggio - è solo diversi mesi più tardi, "all'inizio del 1993" che il capo dello Stato sente il bisogno di trattare con la Procura di Milano; e il tentativo di Di Maggio si conclude sicuramente prima del  giugno 1993, quando Di Maggio passa al Dap.

Il problema è che di questo ruolo di «ufficiale di collegamento» tra Procura e Quirinale svolto dall’ex pm non c’è traccia non solo nei documenti ma neanche nei ricordi dei protagonisti, ovvero i componenti del pool milanese: «Ho letto anche io  questa storia - dice Antonio Di Pietro - e sono caduto dalle nuvole. Premetto che conoscevo bene Di Maggio, ed è più probabile che il sole domani non sorga piuttosto che Di Maggio si sia prestato a azioni poco legali. Ma di un suo interessamento alle nostre indagini su Tangentopoli non ho mai avuto alcun segnale. Non mi ha mai chiesto niente».

Ancora più "tranchant" l’ex procuratore della Repubblica, Francesco Saverio Borrelli: «Sono stupito. Escludo assolutamente di essere stato al corrente di un incarico a Di Maggio o di una sua iniziativa. Per quel che ricordo io, da Vienna andò direttamente a Roma, al Dap. Certo, può darsi che sia passato da Milano, a salutare i colleghi. Ma escludo che abbia svolto un ruolo di collegamento tra noi e la presidenza della Repubblica, a meno che la cosa non sia avvenuta nell’ombra e a nostra insaputa: ma è una eventualità che tenderei a scartare». L’unico “no comment” arriva da Piercamillo Davigo, che tra i membri del pool Mani Pulite era sicuramente quello più vicino a Di Maggio, avendo lavorato a lungo con lui proprio all’inchiesta sul clan Epaminonda, e quindi quello con cui è più verosimile che Di Maggio si potesse confidare: «È da escludere che io rilasci alcuna dichiarazione», dice Davigo, oggi giudice in Cassazione. E allora? Dovendo escludere che Di Maggio si sia inventato tutto, quale fu esattamente la missione che gli venne affidata dal Quirinale a Milano?

Qual era la veste formale che gli venne assegnata? Quali i suoi interlocutori nel pool Mani Pulite? Qual era la «soluzione politica» che Scalfaro aveva in mente per l’inchiesta milanese e che poi sarebbe abortita? Sono domande già complicate di per sé, che rischiano di diventare un rompicapo inestricabile se si "contestualizza" la missione di Di Maggio a Milano in quei mesi. Perchè la verità è che in quei mesi le strade di Mani Pulite e le vicende della lotta alla mafia si incrociano a ripetizione, e non sempre è difficile distinguere le vicende di un fronte da quelle dell'altro. All'inizio del 1993, quando Di Maggio assume il suo misterioso incarico, Giovanni Falcone è morto da pochi mesi, e Ilda Boccassini ha denunciato pubblicamente la diffidenza che il pool Mani Pulite mostrava nei confronti del collega, al punto da inviargli una rogatoria senza gli allegati:. L'anno dopo, in coincidenza con la parte finale del tentativo di Di Maggio per conto di Scalfaro, arriveranno le bombe di Roma, Firenze e Milano, e soprattutto quest'ultima verrà vissuta da Borrelli anche come un attacco al pool. Ma il momento in cui l'intreccio si fa più vistoso arriva pochi mesi dopo, all'inizio dell'autunno, e coinvolge anche Di Maggio: un pentito antimafia si presenta a Milano e dice che la Procura di Firenze e il Gico della Guardia di finanza lo stanno spingendo a gettare accuse contro il pool Mani Pulite e contro la Procura di Milano, sostenendo che alcuni pubblici ministeri meneghini coprivano le attività dei clan catanesi dell'Autoparco di via Salamone: un posto dove si incrociavano criminali comuni, confidenti, gente legata ai servizi segreti.

Tra i pm di cui il Gico voleva la testa, c'era Antonio Di Pietro ma c'era anche lui, Francesco Di Maggio, che pure sui catanesi dell'Autoparco aveva indagato per anni, e con successo. Si rischiò lo scontro frontale tra le due Procure, da una parte Borrelli, dall'altra Pierluigi Vigna. L'inchiesta fiorentina sull'Autoparco finì su tutte le prime pagine, e venne catalogata tra le manovre contro Mani Pulite. Poi la cosa venne lasciata cadere.

Ma quando tre anni dopo Di Maggio si ammalò, e in poche settimane morì, la rabbia per quel fango non gli era ancora passata.

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