Quel borgataro irriverente che nascondeva un cuore d'oro

Il resto non è noia. Il resto sarebbe ancora vita. Ma Franco Califano ha spento la luce, è morto prima che Cristo risorga, può sembrare blasfemo ma il Califfo era un agnello con addosso la pelle di un leone, non sbranava ma ruggiva. Era un uomo veramente fragile, oltre qualsiasi immaginazione banale.
Era attore a titolo gratuito, assistevi alla sua recita senza dover pagare il biglietto di ingresso, era teatro popolare a braccio, diretto, senza copione scritto. Califano è stato capace di interpretare una vita maledetta, tra carcere e droga, inseguendo se stesso, da Tripoli, dove era nato per caso a bordo di un aeroplano, a Roma, città di spasso e di esistenza sbilenca, passando qualche anno anche a Milano, vivendo dovunque e comunque, bene, male, trascinandosi e trascinando. Se ne è andato di nascosto, come dopo l'ultima scena del suo spettacolo al Sistina, il pubblico dei fedelissimi aveva pensato quasi ad una fuga. Come sempre, da sempre, Er Califfo si era dimenticato le parole bellissime delle sue canzoni, faceva parte del suo repertorio, una vita distratta facendo altro ma pensando agli altri.
Viveva ad Acilia, nel villaggio Alitalia, dove stanno le case dei piloti, quasi un omaggio al proprio sito di improbabile nascita, nella pancia di un aereo. Si divertiva a tenere in ordine i piani di volo dei piloti, li comunicava alle signore dei suddetti che stavano in ansia, magari le corteggiava pure. Califano non si può raccontare senza narrare alcuni aneddoti della sua vita. Era la vigilia di Natale di qualche anno fa quando accettò di fare una serata, si fa per dire, al carcere di Rebibbia. Convocò un suo giovane amico, Gianfranco Butinar, che ne è il migliore imitatore in circolazione: «A Frà! Ma è proprio obbligatorio?«, chiese timidamente Gianfranco. «Sì, a Rebibbia domani pomeriggio, alle cinque e mezzo». Roma era intasata di traffico, la strada per raggiungere il carcere non aveva un solo buco libero, un alveare impazzito, tutti fermi, liberi ma prigionieri. Il Califfo controllò l'orologio, quelli al gabbio non possono aspettare, non hanno ore d'aria in libertà, dunque ordinò al «pilota» Butinar di passare sulla corsia opposta e di procedere contromano, con il fazzoletto bianco fuori dal finestrino: «Ma sei pazzo, vuoi che mi tolgano la patente? Qui ci arrestano!». Gianfranco, pallido e tremante non se la sentiva. «Nun te preoccupà, se ce fèrmeno tu dije che Califano sta andando a costituirsi a Rebibbia».
Questa è roba vera, roba del Califfo, quello che disse e scrisse «Io mi sentirò vecchio soltanto cinque minuti prima di morire ma penso di essere in grado di raccontarvi alcuni trucchi del mestiere».

Cinque minuti era un tempo che ricorreva spesso nelle sue parole: «sono andato a letto cinque minuti più tardi degli altri, per avere cinque minuti in più da raccontare...». Cinque minuti prima, cinque minuti dopo. La sua storia si è conclusa. M'hanno fregato n'attimo de vita, ma io l'ho preso come un brutto sogno. Così cantava. Ma non è un sogno. Un attimo ce l'ha portato via.

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