Quelli che inneggiavano alla primavera araba

Da destra a sinistra molti esultarono per la caduta di Gheddafi. Ma i segnali inquietanti c'erano già un anno fa. I fondamentalisti stanno avanzando in Libia come in Tunisia e in Egitto

Quelli che inneggiavano alla primavera araba

Roma - È il paradosso della democrazia. Fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? La primavera del Maghreb nasce come un momento di libertà, intensa, improvvisa, carica di futuro. Solo che adesso quella «primavera» è nelle mani degli estremisti islamici. E il futuro non è quello che in tanti si aspettavano. Il guaio è la retorica di chi si ubriaca di belle parole, senza mai pensare alle conseguenze. Uno come Vendola sta riflettendo ora sul suo entusiasmo? «Quello che più rimbalza dalla primavera araba è il lungo inverno dell'Europa, un gelo che non finisce mai». Solo che il gelo ora sta a Bengasi e si espande intorno, fino all'Egitto. Gad Lerner diceva: «La Libia è così il primo stato che dopo la primavera araba registra la sconfitta dell'islamismo politico». Servito. E cosa resta dell'identità di Giuliano Pisapia che paragonava la sua marcia su Milano ai giorni di piazza Tahrir?

Il volto massacrato di Gheddafi aveva fatto prevedere un clima rigido per la primavera araba, si parlò di «autunno» o inverno» per la Libia liberata dal Raìs e già ostaggio del radicalismo salafita. La fine di Gheddafi, per quanto macabra, aveva fatto comunque esultare gli ottimisti della rivolta maghrebina, dagli atlantisti del Pd a quelli del centrodestra, diviso tra falchi e colombe. Per l'allora ministro degli Esteri, Frattini, la fine di Gheddafi era «una vittoria del popolo libico, un passo avanti verso «un governo libico democratico», e anche La Russa, allora capo della Difesa, salutava l'inizio di una «nuova fase», aperta dalla morte del Colonnello, una cosa che non rallegra ma che «i libici si aspettavano». Alla caduta del governo del Raìs, due mesi prima, il piddino Enrico Letta aveva accolto la «buona notizia per l'Italia», un esito che faceva giustizia «di tante titubanze e prese di distanza che anche dai palazzi italiani più autorevoli sono arrivate in questi mesi». Si riferiva alla nota scetticismo dell'allora premier Berlusconi verso il raid su Tripoli (e quando, morto Gheddafi, Berlusconi commentò con un «sic transit gloria mundi», Veltroni del Pd lo trovò «vergognoso»). Massimo D'Alema, ex premier nella guerra alla Serbia, scriveva su Italianieuropei di essere «convinto che si debba guardare in modo positivo a questa grande e autentica rivoluzione».

In realtà solo pochi giorni dopo si era capito che la nuova fase sarebbe stata molto simile al caos. A cinque giorni dalla barbara uccisione di Gheddafi, il presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico spiegò che la sharia, cioè la legge coranica, sarebbe stata «la fonte del diritto» per la nuova Libia. Non è un caso isolato. Anche nella Tunisia liberata da Ben Alì il partito che ha conquistato più di un terzo dei voti sono stati gli islamisti (moderati) di Ennahda, che significa «Movimento della Rinascita» (attraverso una «via tunisina all'Islamismo»). Anche la primavera araba in Egitto non ha dato i risultati previsti. Il nuovo presidente uscito dalle elezioni egiziane del 2012 si chiama Mohamed Morsi ed è anche il capo del partito fondamentalista Libertà e Giustizia, strettamente legato ai Fratelli Musulmani. I timori degli osservatori più scettici si sono avverati. Specie in Libia, dove il passaggio di regime è stato più lungo e cruento.

Una scommessa che si direbbe persa per l'azionista principale della guerra in Libia, il ri-candidato alla Casa Bianca Barack Obama. Lo slogan degli obamiani, subito dopo la fine di Gheddafi, non a caso era questo: «Reagan aveva dato la caccia a Gheddafi, Bush a Bin Laden, Obama li ha beccati tutti e due». Per gli Stati Uniti una guerra perfetta: 2 miliardi di dollari di spesa (niente confronto ad Afghanistan e Irak), zero vittime, almeno finora.

Avevano fatto conti troppo sbrigativi, come molti hanno fatto notare già dai primi giorni. Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, su Repubblica, spiegava mesi fa che «la Libia è un Paese da rifare da zero, lo Stato non esiste, non esistono partiti, sindacati.

La primavera araba sta drenando nel suo passaggio una violenza inaudita. La laicità non prenderà facilmente piede in questi Paese in ebollizione, il cui futuro a breve termine suscita molte inquietudini». Era l'ottobre di un anno fa, i germi già c'erano tutti.

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