Re Giorgio in caduta Gli italiani vogliono l'elezione diretta

Con quasi 6 punti percentuali in meno, scrive il sociologo Ilvo Diamanti, Napolitano "paga il ruolo da protagonista assunto negli ultimi mesi"

Re Giorgio in caduta Gli italiani vogliono l'elezione diretta

Povero presidente Napolitano. Re Giorgio aveva cominciato l'anno con il botto della rielezione, caso unico e probabilmente ineguagliabile nella storia della Repubblica, e lo conclude con il tonfo nella popolarità tra gli italiani. Il sondaggio Demos pubblicato ieri da Repubblica non lascia incertezze. La fiducia nelle istituzioni è in caduta libera, in particolare quella nella figura del capo dello Stato. Con quasi 6 punti percentuali in meno, scrive il sociologo Ilvo Diamanti, Napolitano «paga il ruolo da protagonista assunto negli ultimi mesi». Il classico caso di eterogenesi dei fini: ci si prefigge uno scopo e si ottiene l'opposto.
Non che vada meglio a parlamentari, magistrati, enti locali, Unione europea: l'unico a salvarsi, secondo Demos, è Papa Francesco perché, in una situazione di altissima tensione interna, ha mostrato che la Chiesa è capace di cambiare. Ma il dato del Quirinale è quello che colpisce maggiormente, perché accompagnato da altre due rilevazioni che non lasciano dubbi sulle idee degli italiani. La stragrande maggioranza (73 per cento, tre su quattro) è ormai favorevole a eleggere direttamente la prima carica dello Stato, come avviene in Francia e Stati Uniti: un chiaro segnale di sfiducia contro le liturgie parlamentari e allo stesso tempo il superamento di uno storico tabù post-fascista, cioè non c'è più paura dell'«uomo forte». A ciò si aggiunge che quasi il 50 per cento è convinto che una democrazia possa tranquillamente funzionare senza partiti politici. «Non c'è più un presidente al quale aggrapparsi», sintetizza con efficacia Diamanti. Da due anni l'Italia è guidata da «governi del presidente», appoggiati da maggioranze di emergenza che dovevano trasformare le proprie debolezze in energia riformatrice. Prima Mario Monti e l'esecutivo tecnico, poi Enrico Letta e le larghe intese: Giorgio Napolitano ha messo tutto il suo peso politico per sostenere queste formule salva-Italia. La «moral suasion», arma potente in mano al capo dello Stato, ha indotto forze politiche opposte a mettersi insieme per ammodernare le istituzioni e rilanciare il Paese.
La formula delle larghe intese altrove funziona: in Germania la chiamano «grosse Koalition» e la signora Merkel la capeggia per la seconda volta su tre esecutivi. Evidentemente gli interpreti italiani non sono all'altezza. Enrico Letta doveva usare la sponda offerta dal Quirinale per incidere in profondità. L'emergenza, la crisi, l'arrivo di Matteo Renzi erano il contesto eccezionale in cui fare ciò che ad altri non era riuscito. Invece l'esecutivo ha traccheggiato, ha tirato a campare sotto l'ala protettrice del presidente.
Il peggio è appena capitato. Estromesso Silvio Berlusconi dal Parlamento, Letta si è dichiarato convinto che «la maggioranza ora è più coesa» e che «adesso non abbiamo alibi». La realtà è completamente diversa, come ha mostrato il percorso parlamentare della legge di Stabilità e del decreto salva-Roma: un pasticcio dietro l'altro, una catena di figuracce, un assalto alla diligenza che ha fatto rimpiangere personaggi detestati come Giulio Tremonti e Mario Monti. La legge di bilancio poteva essere l'occasione per affondare il bisturi nelle emergenze, mentre si è ridotta a una cura palliativa che lascia sostanzialmente le cose come stanno.
Davanti a questo spettacolo Re Giorgio ha avuto un soprassalto. Anche lui ha dovuto prendere le distanze da Letta e richiamare i presidenti delle Camere, eletti pochi mesi fa dal centrosinistra come simboli di novità e cambiamento. Napolitano ha tirato le orecchie a un governo che ha calpestato le prassi costituzionali in materia di decreti legge. Ma ha dovuto farlo per non restare sepolto sotto le macerie del «suo» esecutivo, al quale si è legato al punto di vincolare a esso la permanenza al Quirinale.
Oggi arriva il giudizio dei sondaggi. Un presidente troppo protagonista. Un salvatore della patria mancato. Una personalità istituzionale che in pochi mesi ha bruciato gran parte del credito che si era acquistato. In aprile i leader politici, da Bersani a Berlusconi, erano saliti al Colle implorando Napolitano di accettare la rielezione. Pd e Pdl si erano accordati.

Ora i democratici di Renzi e i forzisti del Cavaliere, per motivi diversi ma coincidenti, spingono per tornare al voto in maggio. E a Napolitano non resta che agitare l'ultimo spauracchio, la carta della disperazione: quella delle dimissioni.

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