Roma - Un'ora sul Colle per fare il punto sulla legge elettorale, poi riunione serale al Nazareno con lo stato maggiore del partito. Matteo Renzi, giura, non vuole la testa di Letta: «Questo governo siamo noi, lavori per tutto il 2014 e faccia bene. Il Pd non ha più alibi, colpe ed errori saranno solo nostri». Però ha fretta. «Parliamo di cose concrete», dice al capo dello Stato, e non di rimpasto che è «roba da Prima Repubblica», la «situazione è ancora difficile» e la gente ci ha chiesto di cambiare. Giorgio Napolitano nemmeno vuole perdere tempo perché, spiega, bisogna «dare risposte» al Paese e trovare un sistema che assicuri governabilità. Ma niente strappi, non si può terremotare il quadro politico.
Il colloquio al Quirinale è «sereno e costruttivo». Chissà, dopo le diffidenze iniziale, forse il giovane segretario e il vecchio presidente cominciano lentamente a ingranare. Le fonti parlano di «scambio di idee», che nel gergo diplomatico non è come il «confronto franco e aperto» di quando si litiga ma nemmeno «la piena assonanza» di quando si trova un accordo. E quindi, come informa una nota del Colle, Napolitano e Renzi esaminano «le prospettive e l'iter per la riforma della legge elettorale e per le riforme istituzionali, in attesa della sentenza della Consulta», rimanendo ognuno sulle proprie posizioni. Il sindaco di Firenze gioca a tutto campo e cerca sponde pure con Berlusconi, il capo dello Stato, come Letta, preferisce che l'intesa parta dal recinto della maggioranza.
E il rimpasto? Per Renzi è una parolaccia. Fa pensare a cose sporche, a trame occulte, evoca anche dal punto di vista semantico il mettere le mani in qualcosa di torbido. «Non lo chiedo e non me ne voglio occupare - dice al capo dello Stato -, ci penserà Letta a cambiare la squadra se lo riterrà opportuno. Io mi batto per le riforme, a cominciare da quella elettorale». Quella parola in realtà non piace nemmeno al presidente perché sotto ci vede una minaccia alla stabilità dell'esecutivo.
Però, per come si stanno mettendo le cose e per il fatto che persino Letta ormai ne parli apertamente, Napolitano si è quasi «rassegnato» alla necessità che il premier riequilibri la sua compagine. Se rimpasto deve essere, che sia almeno leggero, tecnico, con il cambio di due o tre ministri al massimo. In questo caso per resettare il governo basterebbe un nuovo voto di fiducia alle Camere. Diversa e ben più complicata la prospettiva di una crisi: anche se pilotata, andrebbe comunque formalizzata attraverso le dimissioni di Enrico Letta nelle mani del capo dello Stato e un nuovo incarico. E, come insegna una vecchia regola della politica, se si apre una crisi si sa come si comincia ma non si sa mai se e quando si finisce. C'è di più: Napolitano teme che il rimpasto e il riequilibrio nella maggioranza possa rendere più difficile arrivare a un accordo di programma per il 2014.
Rituali da cui Renzi si tiene ostinatamente alla larga. «Parlare di rimpasto è roba da Prima Repubblica. Che noia. Vi prego, parliamo di cose concrete», twitta all'uscita del Quirinale. Il sindaco non vuole farsi invischiare in una trattativa sul Letta-bis: partecipare a un simile negoziato significherebbe garantire al nuovo governo un'apertura di credito almeno fino al 2015. Matteo invece vuole tenere la pistola della crisi in vista sul tavolo, insistendo sulla legge elettorale e le altre riforme. Magari il colpo resterà in canna, però il segretario del Pd è determinato a portare a casa un nuovo sistema di voto, la fine del bicameralismo e la semplificazione della burocrazia.
Renzi si muove quindi su un doppio binario. Da un lato asseconda la discreta regia del Quirinale sulla stabilizzazione del governo. Dall'altro serra i ranghi dei suoi in vista della direzione del 16. E da giovedì comincerà il confronto con Letta.
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