Prima la concorrenza vorace e spietata dei grandi centri commerciali fuori porta. Quindi l'idea epocale dell'«Area C», cinque euro per varcare la soglia del centro, neanche fosse un paradiso dei Caraibi. Infine la crisi e il crollo dei consumi. Il risultato di questa escalation letale è ferocemente depressivo: via Meravigli, strada simbolo della Milano storica e della Milano commerciale, l'eterna Milano capitale dello shopping, ha l'allegria di un due novembre.
Va alla deriva un malinconico simbolo di una malinconica recessione. Uno dei tanti. I dati di Confesercenti sui 10mila esercizi defunti nei primi due mesi del 2013 rappresentano il fenomeno globale, abbastanza agghiacciante per rendere l'idea del momento che viviamo. Ma è uscendo di casa che ogni singolo italiano, di città e di estrema provincia, isole comprese, ha l'impatto visivo più eloquente di qualsiasi statistica: ogni giorno un'altra saracinesca abbassata.
In zona Meravigli non le contano più. Insegne cancellate, vetrine sporche, adesivi sbrecciati, qualche plastica che vola: sembra quasi che all'improvviso i proprietari abbiano lasciato cadere tutto dalle mani, fuggendo in fretta e furia, come al suono di una sirena antiaerea. Colpiti tutti i settori merceologi: chiuso al civico 16 il bar dei panini gustosi, chiuso poco oltre il «Fine serie» di abbigliamento, a salire chiuso l'ufficio di rappresentanza «Condor srl», chiuso il centro fitness «Vertical Fit», chiusa la cartoleria De Magistris, orgogliosamente cartoleria «dal 1887».
«Siamo in default»: Fiorenza Zuoro e suo marito sono titolari di una nota oreficeria appena svoltato l'angolo. Lavorano qui da dodici anni, ma un'annata come questa non l'avevano vista mai. Lui scuote la testa e avverte: «Però il peggio deve ancora venire: vedrà nei prossimi sei mesi, ne riparliamo prima delle ferie. Quando ci cadranno addosso le nuove scadenze fiscali, tanti tireranno definitivamente le cuoia. Chi si salva? Chi non deve pagare l'affitto del negozio, chi ha via di suo, chi non ha debiti pregressi. In questi casi si può lavorare anche in perdita. Ma non in eterno
».
Benché faccia l'ottico, anche Fabiano Cavalleri vede tutto sbiadito. «Io sto qui da sette anni: mai capitato un periodo del genere. Lei arriva in negozio proprio nel momento peggiore: l'ultima settimana registro incassi da tagliarmi le vene. Entrando mi ha chiesto gentilmente se disturba: ma quale disturbo, passo le giornate davanti al computer, tra videogiochi e messagi mail. Almeno mi fa compagnia».
La butto sul brutale: anche lei in odore di chiusura? «Sono sincero: se non chiudo è solo merito di mio padre, che a fine mese mi viene incontro. Ma i dati sono tremendi: solo d'affitto pago quasi 4mila euro al mese. Più le altre spese. Dove trovo incassi del genere, con l'aria che tira? E per fortuna lavoro qui da solo: di avere un dipendente neanche a parlarne. Devo arrangiarmi: ovviamente, vietato ammalarmi. Tasse, affitti, banche insensibili, a fronte di una clientela sempre più esigua: questo è il nostro dramma. E a Roma ci considerano solo evasori fiscali...».
In questa via di grandi marchi e atmosfere mondane, sopravvive da più di mezzo secolo un buco, vogliamo dire due per due?, che tiene alta la bandiera della tradizione e dei mestieri. L'insegna dice «La rinnova scarpe», è un glorioso ciabattino. Dentro, tra aromi di pellami e di colle, un giovane uomo di 37 anni, Gianantonio. Un tipo molto simpatico e anche piuttosto filosofo. Senza piagnistei e vittimismi, con fiera dignità, così fotografa la situazione, sua, di via Meravigli e in fondo dell'Italia intera: «Mio padre ha lavorato qui per più di cinquant'anni. Da qualche tempo, siamo subentrati io e mia sorella. Lei, che tiene i conti, mi sta mettendo in guardia: stiamo attenti, se va avanti così bisogna chiudere. Faremo come tanti negozi della via. Purtroppo, siamo ai minimi storici: in periodi normali riparavo venti paia di scarpe al giorno, adesso mediamente tre. Capisco la gente: ormai compra scarpe da quattro soldi, quando si rompono sono io stesso a dire che non conviene riparare. Così, ho dovuto rassegnarmi all'idea di lavorare solo mezza giornata, alternandomi con la sorella. Di sera, per arrotondare, vado nei locali a organizzare i karaoke: cinquanta, sessanta, settanta euro che fanno comodissimo. Altre mosse? Tenere meno articoli in negozio, giusto il necessario. Ma per quanto tiriamo la cinghia, non si vive. Mangiamo, questo sì. Ma se si rompe la frizione della macchina, io non posso cambiarla. Non so se mi spiego. Non abbiamo uno stipendio vero e sicuro, facciamo salti mortali. Le banche, figuriamoci. Le tasse sbucano da tutte le parti. E i clienti spariscono. Naturale, non si sta in piedi. Infatti, guardi là fuori: questa via era bellissima, piena di vita, adesso è un mortorio. Certi negozi aprono e dopo due mesi chiudono. Avrei già dovuto gettare la spugna anch'io, ma non è così facile: questo è l'unico mestiere che so fare
».
Milano, Italia: era una vecchia trasmissione di successo. Visti dalla piccola bottega di un ciabattino valoroso, sono una Milano e un'Italia da pelle d'oca. Qualcuno, presto o tardi, dovrà ricominciare a metterci mano. Prima che le saracinesche non si rialzino più.
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