C'eravamo tanto odiati, e si vede benissimo. C'è un omissis grande come un palazzo (Chigi?), forse sarà saltato un paragrafo, o anche due, del file word inviato dall'ex premier Enrico Letta al Corriere della sera. Non è più premier, non ci sono più i suoi ministri, è tornato un deputato semplice, non sta più neppure a Roma ma (temporaneamente) a Parigi per un ciclo di lezioni all'Institut d'Études Politiques, tutto è cambiato in un lampo eppure quelle due parole, Matteo Renzi, onnipresenti sui media, sono assenti, rimosse, cancellate da Letta, che scrive come se il tempo si fosse fermato al 21 febbraio, prima della coltellata alle spalle. Gli tocca firmarsi «Enrico Letta - ex presidente del Consiglio», ma un marziano che lo leggesse penserebbe che è lui il premier in carica. Ricorda gli spari a Palazzo Chigi e i carabinieri feriti, ripensa «a quei minuti», al baluardo delle istituzioni. Anzi, dell'unica istituzione che ricorda e ringrazia, e l'unico nome che cita insieme al carabiniere Giangrande: Giorgio Napolitano, suo grande sponsor politico che nulla ha potuto, però, per fermare il ciclone fiorentino. Toglie lo sguardo dal presente, pieno di amarezza, e si affida alla memoria, al giorno in cui Luigi Preiti scarica la pistola davanti a Palazzo Chigi, evento che si lega «indissolubilmente» ad un altro avvenimento di quei giorni, «la nascita del nuovo governo», ovviamente quello Letta. Ricorda «la fermezza del presidente della Repubblica», che «ha rassicurato tutti», la «prontezza» di Napolitano che «è stata fondamentale». Ci sono Napolitano e Letta, i carabinieri, il sacrificio, l'Italia. E Renzi? E il suo «nuovo governo»? E tutto il resto venuto dopo? Svanito, annegato, forse nel rancore.
Gli indizi non mancano. I pochi secondi, gelidi, in cui Letta sbriga la cerimonia della campanella, il passaggio di consegne dal premier uscente a quello entrante (l'Innominato, Matteo Renzi). Una stretta di mano rapidissima, senza neppure guardare negli occhi l'usurpatore, poi la foto di rito, anche questa di pochi istanti, livido in volto, e addio ingrati, temperatura sottozero (ricambiato dal fiorentino, in puro spirito machiavellico). Dal suo licenziamento da Palazzo Chigi Letta è sparito, solo un'intervista, dopo due mesi, per dire che sì, ora se ne va per un po' in Francia, ma non si sente affatto «un esule», o uno fatto fuori da Renzi, il ragazzetto che si è pappato in un solo boccone Pd e governo. Non è deluso, figuriamoci, anzi «è contento di rinnovare il legame con la Francia», mica voleva restarci a Palazzo Chigi, macchè, preferisce rinnovare il suo legame con la Francia. Poi l'ingresso alla Camera, nel giorno della fiducia al governo Renzi, e il plateale abbraccio con Bersani, i due sconfitti che meditano vendetta. Prima di eclissarsi, nelle ultime ore di agonia quando era chiaro che fosse un dead premier walking, Letta ha consegnato ai fedelissimi il suo pensiero su Renzi, difficilmente cambiato nel frattempo. Uno «ossessionato dal potere», uno che «ha sempre voluto prendere il mio posto», ma che ha giocato «a carte coperte», fingendosi amico e, anzi, giurando - e scrivendolo pure, in un libro - che mai avrebbe sarebbe diventato premier «senza passare dalle elezioni».
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