Roma - Giunge sempre il momento di rovesciare il punto di vista, parlando del Pd. Se una squadra si vedesse convalidare un gol inesistente la sua reazione sarebbe uguale in ogni tempo e luogo: mani al cielo, esultanza, spogliatoio infilato alla chetichella. Non una parola, non una polemica. Felici d'averla fatta franca, ebbri di sorte amica. Prassi di furbizia banale, da taluni definita amor di Sé.
Ma non è un partito banale, il Pd. Il benigno risultato elettorale, inatteso oro colato per il governo, innesca l'ennesima nevrosi, l'ennesimo cozzo di sentimenti rancorosi, l'ennesimo serpente di rancidi veleni. Che non si placano, anzi rinfocolano ieri con l'arrivo di Matteo Renzi all'Ara Pacis. Altro nome di cui sarebbe ora di rivedere la traslazione, almeno in presenza di queste ferocissime tribù cannibali. Accorsi non solo in qualità di renziani, ma anche con corpose masse franceschiniane, veltroniane e, dunque, doppio-triplo-quadruplo-giochiste, per ascoltare lo stil novo di Firenze. Nient'affatto dolce (anche se «credo in un bipolarismo gentile», dice il sindaco).
Ma Renzi è stufo di trastulli. «Non gioco a' trabocchetti», dichiara scrollandosi di dosso la mozione Giachetti, di cui si vuole sia l'ispiratore. «Giachetti è l'unico parlamentare che ha fatto lo sciopero della fame per il Mattarellum, la sua è la mozione di una persone perbene...». L'intempestività rimproverata a Giachetti (e quella «drammatizzazione» da parte del governo) alimentano però i sospetti contrapposti, con il sindaco fiorentino nelle parti di sgamatissimo sicario del premier pisano. Possibile che un tipo così ganzamente furbo organizzi furbate così poco furbe?
Nel Pd ci si interroga, i renziani si difendono. Ma Letta il giovane ottiene ciò che voleva, ovvero un altro po' di elisir per il governo. «Questa che io voglia far cadere Letta è una barzelletta: prima mi arrabbiavo, adesso mi diverto. Un governo è serio se fa le cose e non vivacchia. Per fare una riforma costituzionale ci vuole più tempo, ma si deve dare un segnale: si abbia il coraggio di fare il Senato federale». Il Pd deve dettare l'agenda, «prendere le idee del Pdl è peggio che prenderne i ministri», ripete Matteo. Reso sicuramente più impaziente (come buona parte del Pd, d'altronde) dallo sconcertante sboom grillino. «Il governo è lì da un mese, speriamo faccia le cose, cose concrete, ma non vorrei che la sconfitta di Grillo portasse qualcuno a dire facciamo finta di niente. Non può portare nessuno a dire è finita qua».
Le parole d'ordine sono quelle che l'ex sindaco usa da settimane, le uniche a consentirgli di reggere vivo e vegeto davanti al tempo che scorre. Perché scorre, ma tutto verso la riva dell'«amico Pisano». Così quando il sindaco torna a stuzzicare l'ex segretario Bersani - «non dobbiamo avere paura, abbiamo sbagliato a dare l'immagine che la leadership sia di per sé di destra, espressione fascistoide s'è detto durante la campagna elettorale... Invece un uomo solo al comando è un'espressione bellissima» - ecco ripiombare nel pieno dell'aspro clima delle Primarie. «Non sapere distinguere fra leadership democratica e uomo solo al comando mi sembra un bel problema, è come confondere la medicina con la malattia. Sarà meglio discutere sul serio», tuoneggia Bersani. L'uomo che, seppur da «ex», ha ancora in mano il grosso del partito e lo si vedrà al congresso. Anche se esso viene fatto via via scivolare, nei rumores di fondo diretti da Palazzo Chigi, sempre un pochino più in là (ora siamo a fine gennaio, non è detto che si fermi).
I «vaffa» interni al Pd sono come le ciliegine e dunque contagiosi.
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