Politica

Ruby, i giudici si smentiscono Tutti i buchi neri del processo

Molte contraddizioni nelle due sentenze relative al caso della ragazza marocchina. Soprattutto sui presunti moventi di Berlusconi e sull’attendibilità della teste chiave

Due sentenze che solo ap­parentemente offrono la stessa verità. Certo, sia per le giudici del caso Ruby 1 che per le loro colleghe del pro­cesso Ruby 2 al centro di tutto c’è lui, Silvio Berlusconi, con il suo bisogno compulsivo di «soddisfazioni sessuali», e la sua corte pronta a soddisfarlo. Ma a ben vedere, tra le centina­ia di pagine delle motivazioni che hanno portato alla condan­na di Silvio Berlusconi e le altre centinaia delle motivazioni a carico del trio Mora-Fede-Mi­netti scorre un rivo, sottile ma sostanziale, di differenza. Nelle due ricostruzioni cambia, per così dire, il movente. E in un pro­cesso penale il movente è tutto, o quasi. Per i giudici del processo a Berlusconi, tutto lo scomposto agitarsi dell’allora presidente del Consiglio nella notte del 27 maggio 2010, quando Ruby ven­ne portata in Questura, aveva un solo obiettivo: evitare che si scoprisse che alle serate hot di Arcore aveva partecipato an­che una minorenne. Che venis­se alla luce tutto il resto, com­presi il bunga bunga, le «orge bacchiche», eccetera, a Berlu­sconi - secondo i giudici che lo hanno condannato - non im­portava granché: «non erano le cene con connotazioni sessuali che si svolgevano presso la resi­denza di Arcore a preoccupare l’imputato», scrissero a pagina 321 il giudice Giulia Turri e le sue colleghe.

Peccato che sia esattamente il contrario di quanto scrivono ora i giudici del caso Ruby 2, quelli che l’altro ieri hanno can­didato Berlusconi a un proces­so per corruzione giudiziaria, accusandolo di avere compra­to il silenzio di dieci ospiti delle sue feste. Le ragazze sarebbero state convinte a pagamento a fornire una versione di como­do di quanto accadeva nella vil­la del Cavaliere. Non però sui rapporti tra Berlusconi e Ruby, di cui sapevano poco e nulla. Ma proprio sull’intera gestione delle serate, sul clima generale, sul «sistema prostitutivo». L’ex presidente del Consiglio e i suoi legali, cioè, avrebbero ri­schiato una nuova accusa solo per impedire che venisse alla lu­ce proprio quel sistema che per i giudici del primo processo Ber­lusconi era fin dal maggio 2010 rassegnato a veder trapelare. E allora qual è la verità? Hanno ra­gione i giudici del Ruby 1 o del Ruby 2?

Ma non è l’unico aspetto sin­golare delle motivazioni depo­sitate venerdì contro Fede­ Mo­ra- Minetti. I salti logici, va det­to, sono meno vistosi di quelli contenuti nella sentenza a cari­co di Berlusconi. E senza dub­bio i giudici del Ruby 2 avevano un compito più facile. Ma sullo sfondo rimane inesplorato un tema cruciale: come dimostra­re, in assenza di testimonianze oculari, che Berlusconi abbia avuto rapporti sessuali con le ospiti delle sue feste? E, in parti­colare, come dimostrare che li abbia avuti con Ruby? Le moti­vazioni, a pagina 19 , se la cava­no in modo un po’ sbrigativo: «L’effettivo compimento del­l’atto di prostituzione è estra­neo alla fattispecie e non neces­sario per la consumazione del reato», modo un po’ criptico per dire che in questi casi basta il pensiero, l’intenzione; e che se poi non succede niente il rea­to di i­nduzione alla prostituzio­ne esiste lo stesso. Ma poi, stra­da facendo, le giudici si accor­gono di avere preso la faccen­da un po’ sottogamba: e così, come le loro colleghe del caso Ruby 1, puntano a dire che in re­altà tutto ciò che sa di sesso è un atto sessuale, e se avviene a pagamento costituisce quindi prostituzione. Basta che «mol­te ragazze effettuassero ballet­ti con movenze erotizzanti e che vi fossero toccamenti reci­proci tra le ragazze, nonché toc­camenti tra le stesse e Berlusco­ni, che alcune partecipanti alle serate ballassero interagendo con il palo da lap dance. Si trat­ta di comportamenti già inte­granti attività prostitutiva». Li­nea bacchettona, basata su al­cune sentenze della Cassazio­ne, ma che porterebbe alla chiusura da parte della Buon­costume di tutti i night club ita­liani.

Ma il buco più vistoso, nelle motivazioni del processo Ru­by 2, riguarda lei, la protagoni­sta, Ruby: che i giudici hanno chiaramente trovato molto an­tipatica quando se la sono tro­vata davanti, e infatti gliene di­cono di tutti i colori. Però poi la utilizzano come teste chiave quando citano le sue intercetta­zioni. Problema: in aula è venu­ta una testimone (non sospet­tabile di essere pagata da Berlu­sconi) che ha avuto in cura Ru­by nel 2008, e ha spiegato che fin da allora la ragazza era in preda a una sindrome da «fuga autistica» che la portava a in­ventarsi una realtà parallela, insomma a dire balle su balle. E qui il giudice Annamaria Gat­to sale in cattedra, accusando i difensori di non avere saputo fare le domande giuste alla psi­cologa e di non essere «partico­larmente ferrati nella materia, posto che non hanno indagato aspetti che chi è dotato di appo­sita specializzazione non avrebbe trascurato».

Ma quel giorno in aula c’era anche la giudice Gatto. E perché non le ha fatte lei, le domande che po­tevano scop­rire se davvero Ru­by è una bugiarda matricolata?

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