Chi ci giudicherà sarà meglio di noi. Lo speriamo quando entriamo nelle aule dei tribunali, ci sediamo colmi di un'angosciante sensazione e attendiamo il compimento del destino.
Chi ci giudicherà non conosce la meschinità e l'invidia, controlla le passioni, non si lascia accecare dal fumo oscuro dell'ideologia. Il giudice, qualunque giudice, non può essere come noi. Perchè deve saper padroneggiare simpatie e antipatie e non deve lasciarsi attraversare dalle emozioni che arrivano all'improvviso come le folate di vento e la pioggia in montagna.
Ma chi ci giudicherà e ha già giudicato tanti uomini come noi non è poi così lontano dal nostro mondo, in fondo, gratta gratta, ha la nostra sensibilità, le nostre debolezze, le nostre cadute di stile. Inutile circumnavigare i nostri ideali, la realtà è, come si dice in questi casi, prosaica. Non sempre si può generalizzare, ma il mondo entra come uno spillo nelle esistenze e negli animi. Anche di quelli che indossano la toga. E può sconvolgerli. Può trascinarti sull'ottovolante dei dubbi, dei tormenti, del buio interiore. Con una ricaduta sulla professione che è difficile misurare col metro dell'equilibrio, della saggezza, della distanza giusta.
Sì, ci sconcerta scoprire i percorsi umani drammatici, fra lampi e tuoni, di chi dovrebbe scandagliare le vite degli altri e fatica o non riesce proprio a tenere insieme la propria storia. Però bisogna provare a raccontare, dietro le quinte dell'ufficialità, oltre i processi famosi, nel retropalco di narrazioni che non avremmo nemmeno osato immaginare. Vanity Fair ha rotto il tabù e ha preso per la collottola un caso limite: ha accompagnato a Basilea, nella clinica della dolce morte, un signore napoletano colto e istruito. Un uomo con due lauree, capace di conversare con garbo di storia e della fisica delle particelle, un signore dal profilo simile, molto simile a quello di Pietro D'Amico, il sostituto procuratore generale di Catanzaro che tre mesi fa ha deciso di farla finita in Svizzera, nello stesso ospedale della dottoressa Erika Preisig, perché convinto di avere un male invincibile ma che forse era curabile. E così ora le polemiche si susseguono e un'inchiesta chiarirà se il suicidio assistito - tecnicamente tutt'altra cosa rispetto all'eutanasia - sia stato il frutto di un tragico equivoco oppure no.
Ma questo non ci interessa, non oggi. Ci interessa il viaggio a Basilea, ci interessano gli umori, gli sbalzi emotivi, la disperazione mista a compostezza di un uomo che affronta le sue ultime ore. E che per inciso può essere, è, è stato fino a qualche tempo prima, un magistrato, uno che ha chiesto il carcere, che ha fatto arrestare, che ha interrogato e ha scavato nella parte peggiore degli esseri umani. E che per noi è o dovrebbe essere un dispenser inesauribile di equilibrio. Ma adesso anche lui è fuori dall'aula, è lontano dal tempio e combatte la più terribile delle battaglie: si nasconde ai familiari, che lo legherebbero in casa pur di non vederlo morire, e parte in macchina da Napoli, scortato dal giornalista, dilaniato tra la voglia di chiudere una partita troppo dolorosa e il desiderio sfrenato di assaporare gli ultimi regali di una vita ormai contata.
Parla così dei suoi familiari: «Tutto quello che vogliono è che tu continui ad esistere, per la loro consolazione, per il loro puro egoismo, per rimandare il più possibile il momento in cui avranno a che fare con la tua morte. Poi però cercano di evitarti, trovano ogni scusa per lasciarti da solo, perchè la tua malattia li mette a disagio». Il malato, anche il magistrato sofferente, è solo un peso da gestire. E lui ne è consapevole, in un impasto di lucida e feroce disperazione.
Però lui stesso, mentre il countodwn scorre impietoso verso la flebo fatale - meno sessanta ore, meno cinquanta, meno quarantotto - riconosce che la scelta inesorabile fa a pugni con il gusto che le piccole cose, anche un panino sull'autostrada, possono offrirti inaspettate. E soprattutto rimedia il giudizio tagliente appena emesso e lo capovolge: «Non posso biasimare i miei. E tutti quelli che ti vogliono vivo.
Non possiamo sopportare la vista di una persona se sappiamo con precisione l'ora in cui morirà». Lui se ne va alle 9.30 del mattino. Dopo aver detto che la fede è una fregatura. Ed aver stretto, perfetta contraddizione sull'orlo del mistero, la corona del rosario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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