
Cavalieri ma non troppo. Gentili, ben educati, ma non iperprotettivi. Non da far pensare a una donna che lei abbia bisogno di lui, per difendersi, per sopravvivere. Le donne di oggi non sono principesse in pericolo, i maschi non sono di sicuro cavalieri. Qualche volta cercano pure di salvarle, ma più spesso succede il contrario, e soprattutto: le donne si irritano al pensiero di dover essere salvate. Però la parola cavalleria, con tutto il suo strascico di armature, cavalli, coraggio, lealtà, trecce lanciate giù da altissime torri, viaggi infiniti e combattimenti, ha ancora il suo fascino. Il suo perché.
Il New York Times ha aperto il dibattito, dal titolo La cavalleria è morta. Lunga vita alla cavalleria, per capire quale possa essere la sua sorte negli anni Duemila: sepolta sotto la lapide delle romanticherie del passato, ancora viva oppure in evoluzione, per adattarsi a una società molto più «emancipata e cinica»? Senza dimenticare che i cavalieri andavano alle crociate e si ammazzavano per spartirsi le terre e ottenere privilegi dai loro signori (al di là della facciata valoriale il feudalesimo, quanto a cinismo, ha poco da imparare), certo pare anacronistico riproporre una visione del rapporto uomo-donna in cui lui debba proteggere lei, fragile e indifesa. Però scrittori e blogger e studiosi che hanno dibattuto di cavalleria per il quotidiano americano sono quasi tutti d'accordo: morta non è morta, ma un po' da rivedere di sicuro. E sì, la giovane attrice Miley Cyrus ha detto che «la cavalleria è morta» e lei si deprime a guardare certi film romantici, visto che poi la realtà va in tutt'altra maniera. Un sondaggio del 2010 però racconta anche che l'ottanta per cento degli americani pensa che le donne siano trattate meno cavallerescamente che in passato, mentre uno studio su diecimila persone in tutto il mondo ha scoperto che la caratteristica principale che i giovani (maschi e femmine) cercano in un partner è la gentilezza. E al cuore della cavalleria, insieme al coraggio, alle capacità in battaglia, ai valori cristiani, c'è proprio la «cortesia» medievale. Che nulla vieta di riadattare al Ventunesimo secolo, con le dovute differenze. Per esempio, che cavalieri possano essere sia gli uomini, sia le donne, in questi termini. O che non si confonda un atteggiamento cavalleresco con uno maschilista: perché spesso l'accusa, per i sostenitori della cavalleria, è quella di riproporre un sessismo mascherato.
Keith Bernard, scrittore e musicista, scrive per esempio che la cavalleria è «un contributo allo sciovinismo», perché quegli uomini che sono così galanti e solerti nel cedere il posto in metropolitana alle signore, sono «gli stessi che cento anni fa non avrebbero tollerato una donna manager in ufficio». Può essere vero, ma non sempre. Può essere anche vero, invece, come sostiene la scrittrice Emily Esfahani Smith, che «è meglio aprire la porta a una donna che sbattergliela in faccia», e che quindi la cavalleria, alla fine, sia «una virtù a cui tutti dovremmo aspirare». Nel senso di compassione ed empatia per il prossimo, gentilezza rispettosa. Cavalleria non è proteggere le donne coprendole con un burqa, o rinchiudendole in una torre dorata (anche con vista su Central Park). Magari è una forma di cortesia troppo spesso dimenticata: le donne saranno cambiate, ma non è un alibi per non versare l'acqua nel bicchiere, o regalare un mazzo di fiori, o cedere il passo, o corteggiare. Ci sono buone maniere, anche per e verso donne non da salvare.
Se esistono dei rituali, dice Brett McKay (con la moglie ha un blog dedicato all'«arte della mascolinità»), non per questo sono da demonizzare: anzi, ci ricordano le nostre differenze, che poi ci rendono una coppia.
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