«Parliamo tanto di me», è il titolo di un libro di Cesare Zavattini degli anni '30, in cui lo scrittore, come moderno Narciso, osservando il suo fascino intellettuale in una propria fotografia, si ripromette di essergli degno in ogni sua azione futura.
Pochissimi possiedono l'ironia narcisista di Zavattini, pochi sono i grandi spacconi capaci di inventarsi originali avventure, i più costruiscono prevedibili spacconerie da scompartimento ferroviario, raccontando di essere quello che non sono. Non c'è niente da fare: il piacere di parlare di sé è incontenibile.
Una ricerca dell'Università di Harvard ha accertato che, statisticamente, il 30 per cento di un campione di varia umanità prova, nel parlare di sé, un godimento pari a quello sessuale e a quello che si ha per il cibo. Se abbiamo la sventura di incappare in uno di questi personaggi, dobbiamo sapere che sarà molto difficile scrollarcelo di dosso e che sarà bene armarsi di santa pazienza come si fa con i bambini capricciosi.
Il guaio è che non finisce lì. In quel 30 per cento potrebbe anche starci una figura eccentrica, originale, che diverte: uno spaccone alla Paul Newman. Ma oggi dobbiamo prepararci ad affrontare una realtà più complessa, una vera e propria epidemia di spacconate. Infatti, a coloro che posseggono una predisposizione fisico-psicologica al parlar tanto di sé, la ricerca americana aggiunge altri soggetti che con altre caratteristiche contribuiscono al dilagare dalla spacconeria. Viviamo in una società in cui il modello economico ha costruito una forte mentalità competitiva, per cui diventa umanamente inevitabile presentare al pubblico un'immagine di sé di alta qualità, che non corrisponde alla realtà. Insomma, se capitasse di avere a che fare con qualcuno che appartiene a quel 30 per cento di affetti da godimento di auto celebrazione e per di più attanagliato dalla competitività economica, meglio rassegnarsi e fingere di ascoltarlo. In questa epidemia di spacconate è successo però qualcosa che, se da un lato ne ha potenziato il contagio, dall'altro ha ridotto il parlar tanto di sé a un fatto banale, modesto, senza fantasia. La responsabilità è di Internet, di Facebook.
Se uno la racconta grossa, nessuno ci crede: gli amici di Facebook lo mollano, anche perché la comunicazione virtuale non ha possibilità di verifica: si legge il messaggio ed eventualmente si risponde. Se qualcuno scrive di aver scalato l'Everest e incontrato lo Yeti, difficile trovare chi gli chieda quanto grande fosse: non si è presi in considerazione, e si assiste all'inevitabile assottigliamento della lista di amici.
Dunque, Facebook è formidabile nel far parlare tanto di sé, ma se si legge quello che uno scrive, ci s'immalinconisce: altro che spacconate. Oggi sono stata al supermercato, dice l'adepta di Facebook, poi dal parrucchiere, di pomeriggio sono andata a prendere a scuola mio figlio... E avanti così, in una rassegna di avvenimenti del tutto insignificanti, ma veri. Un compromesso inevitabile nell'era della globalizzazione, in cui siamo tutti figli della stessa banalità quotidiana. C'è chi se ne fa una ragione e chi, proprio non riuscendo a trattenersi dal parlare di sé, accetta l'imborghesimento telematico della spacconata.
Diciamo la verità: si prova una certa nostalgia per il grande spaccone alla Paul Newman. Era un mondo che creava delle élite anche tra i caccia palle. In fondo, ci dicevano quanto fosse bello sognare in grande e immaginare ciò che non si è. Ma oggi sembra che desideri, speranze, sogni siano pericolosi eccessi da eliminare: un pendant psicologico della spending review.
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