Sempre alta la temperatura degli spread. Rajoy: «Peso insostenibile»

Sempre alta la temperatura degli spread. Rajoy: «Peso insostenibile»

All’improvviso, sembrano tutti d’accordo: la Grecia va tenuta nel club dell’euro. Da Angela Merkel a Mario Draghi, da Josè Manuel Barroso fino al premier spagnolo Rajoy, è tutto un far quadrato attorno ad Atene. Ma è un coro che non rassicura. Fino al 17 maggio, data fissata per le nuove elezioni greche dopo che è naufragata l’opzione di un governo di tecnocrati, si continuerà forzatamente a navigare sul mare agitato della paura. Quello che accadrà dopo il voto, nessuno può saperlo. Così, con la tensione sempre a livelli di guardia, hanno presa facile sulla fragilità dei mercati le indiscrezioni a volte prive di fondamento.
Ieri, per esempio, si è diffusa la voce che la Bce avrebbe chiuso il rubinetto dei finanziamenti di emergenza ad alcune banche elleniche perché considerate insolventi. Una mossa senza precedenti, subito smentita dagli stessi istituti e poi dall’Eurotower, che ha precisato come l’esclusione riguardi le banche greche sottocapitalizzate e sia solo relativa alle normali aste di rifinanziamento. Tanto è però bastato per far cambiare rotta in fretta alle Borse, con azzeramento dei guadagni accumulati fino al primo pomeriggio e chiusura in negativo (-0,21% Milano), con la sola eccezione di Parigi (+0,31%). La volatilità estrema dei listini azionari è il sintomo principale dell’instabilità, ma dove più è tangibile la paura della cosiddetta Grexit è nella temperatura degli spread: quella tra Btp e Bund resta nell’area non proprio confortante dei 460 punti (a 436 la chiusura), mentre quella dei Bonos spagnoli si è arrampicata fino a 507, una quota insostenibile. Ben lo sa Rajoy, che davanti al parlamento iberico non ha nascosto che «in questo momento c’è un serio rischio di non ricevere soldi in prestito o dover pagare tassi astronomici». Non è una duplice alternativa, ma un doppio pericolo mortale. Convinto che Madrid abbia fatto tutto il possibile per risanare i conti, il premier spagnolo ha infatti chiamato in causa direttamente l’Unione europea: «Dovrebbe fare di più».
Già, ma cosa? Il commissario Ue alla concorrenza, Joaquin Almunia, ha richiamato ieri l’urgenza di avviare un serio dibattito sugli eurobond. Ammesso che la discussione si possa aprire nonostante il nein sbattuto in faccia da Berlino anche al presidente francese François Hollande dopo l’incontro con la Merkel, sono i tempi necessari al varo di questo strumento che non coincidono con questa fase della crisi. Non a caso, la Bank of England, per ammissione del suo stesso governatore Mervyn King, sta studiando piani di emergenza in caso di una rottura dell’euro zona. E la Federal Reserve, nei verbali della riunione del 24-25 aprile, ammette che la crisi finanziaria europea «è un rischio significativo per l’economia Usa» di cui sono consapevoli le banche americane, che «riducono l’esposizione» verso il Vecchio continente.
Fonti diplomatiche Ue ritengono possibile l’opzione delle concessioni «sulla tempistica» del piano di austerità imposto alla Grecia in cambio del piano di salvataggio finanziario, ma c’è anche chi spera in un intervento a sorpresa della Bce con un taglio dei tassi, oppure attraverso un’iniezione di liquidità sui sistemi finanziari prima del prossimo meeting del consiglio direttivo. Difficile tuttavia immaginare veri e propri piani di sostegno dell’economia. Questo, peraltro, è l’orientamento espresso in più di un’occasione da Draghi. Non esplicitato ieri, comunque, dal presidente dell’istituto di Francoforte durante un convegno nella città tedesca. Draghi ha ancora una volta posto l’accento sull’obbligo di seguire la via delle riforme accompagnandola con una «riduzione strutturale della spesa pubblica» perché è necessario «moderare i costi evitando gli eccessi del passato». I Paesi dell’euro zona, ha spiegato inoltre Draghi, «devono riguadagnare competitività».

Draghi ha però difeso l’azione di risanamento dei bilanci attuata da molti governi, tale da consentire al debito pubblico nell’area di «smettere di crescere il prossimo anno e poi declinare l’anno successivo. Il problema è che questi sforzi «non sono sufficientemente notati e presi in considerazione». Quanto alla Grecia, «preferiamo che resti nell’euro».

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