La Severino sbaglia i compiti E per il boss di Capaci la prigione diventa «light»

La Severino sbaglia i compiti E per il boss di Capaci la prigione diventa «light»

Un profilo criminale di prima grandezza non basta per condannare un boss mafioso al 41 bis. Ci vogliono fatti concreti, altrimenti il regime penitenziario duro dev’essere cancellato. Ecco perchè Antonino Troia, uno dei responsabili della strage di Capaci, in cui morirono Giovani Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, riceverà d’ora in avanti un trattamento meno pesante. Intendiamoci: Troia era all’ergastolo e resta al carcere a vita. Ma il 41 bis no: quello dovrà essere allentato. La pronuncia del tribunale di sorveglianza di Roma non lascia dubbi e boccia il ministro della giustizia: il provvedimento firmato da Paola Severino, che il 30 novembre 2011, aveva disposto la proroga del carcere duro, «è sguarnito di adeguata motivazione». Di più: «Se è vero che il decorso del tempo non può da solo costituire elemento decisivo di valutazione è altrettanto illegittimo fondare il giudizio richiesto dall’articolo 41 bis esclusivamente sul ruolo esercitato 20 anni fa da persona che oggi, settantenne e malata, e sottoposta da 19 anni a rigorosissimo e afflittivo regime penitenziario, non ha più avuto relazione diretta o indiretta con un’organizzazione che, pur nell’ambito di Cosa nostra, non è noto se sia localmente attiva e soprattutto in qualsiasi modo ancora legata a interessi legati a Troia».
Insomma, nessuno nega lo spessore di Troia, che all’epoca della strage, avvenuta il 23 maggio 1992, era il capomafia di Capaci e in questa veste avrebbe partecipato alla riunione della Cupola in cui fu messo ai voti e approvato il terribile attentato; non solo, fu lui a custodire l’esplosivo utilizzato per far saltare il pezzo di autostrada su cui viaggiava Falcone. Tutto vero, ma il passato, quel passato, è ormai lontano e non c’è la prova che il detenuto Antonino Troia sia rimasto in contatto con i picciotti di Cosa nostra. E invece il guardasigilli se l’era cavata con poche righe, giudicate generiche dai giudici di Roma. La parte dedicata «alla posizione specifica - annota il tribunale di sorveglianza - è insolitamente breve e si limita a segnalare l’emissione di tre decreti di sequestro nei confronti di persone affiliate alle famiglie di corso dei Mille, Noce e Uditore e l’omicidio di due persone affiliate alle famiglie Galatolo e Santa Maria di Gesù». Una specie di compitino da parte di chi, forse, pensava ad una sorta di conferma quasi automatica del carcere duro.
Il procuratore nazionale antimafia aveva dato parere negativo alla revoca del 41 bus e ora sempre lui potrà impugnare la decisione in Cassazione. Intanto, la classe politica si agita e polemizza a distanza con la magistratura. «Questo - spiega Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd - è un provvedimento difficile da digerire e sulle cui motivazioni chiediamo la più ampia chiarezza possibile». Ancora più tranchant Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia: «Non si capisce come si possa prendere una decisione del genere nei confronti di un boss del calibro di Troia che ha avuto un ruolo nella strage di Capaci. Vedere revocato il carcere duro, dopo i tanti sforzi fatti per fare giustizia sulle stragi ed arrivare ad una condanna, è davvero desolante». Sulla stessa linea il Pdl Salvino Caputo: «Questo beneficio rappresenta un segnale pericoloso che scoraggia l’opinione pubblica».
In ogni caso, Troia rimarrà ancora nel circuito dell’alta sicurezza.

Insomma, non finirà in cella insieme ai detenuti cosiddetti ordinari. Resta la bacchettata al Ministro: Paola Severino è avvisata. Il 41 bis, che pure è uno strumento essenziale nella lotta alla mafia, non può essere motivato una volta per tutte.

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