La sinistra accetta solo i verdetti anti Cav

La sentenza Cucchi scontenta giornali e partiti di solito al fianco delle toghe e ora diventa lecito farle a pezzi

La sinistra accetta solo i verdetti anti Cav

Le sentenze si rispettano. Anzi, si applaudono se bastonano, come è da vent'anni o quasi, il Cavaliere. Se però non seguono schemi, suggestioni e tic cari alla sinistra, allora è lecito criticarle. Di più, farle a pezzi. Ci voleva il caso Cucchi per far saltare, con la dinamite dell'indignazione, la vicinanza, secondo alcuni la contiguità, fra la cultura rossa e la magistratura. Ci voleva la storia drammatica del ragazzo arrestato per spaccio e morto al Pertini di Roma per far spuntare sulla prima pagina del Manifesto un titolo che è un atto d'accusa: «Ingiustizia è fatta». Peggio di una requisitoria. C'è il leader Sel Nichi Vendola che scrive alla sorella Ilaria («Questa sentenza non fa giustizia, non individua le responsabilità, lascia ancora aperta la ricerca della verità»). Altro che galateo istituzionale, bilanciamento dei poteri e attesa delle motivazioni per capire ed eventualmente controbattere. No, un minuto dopo il verdetto che assolveva gli agenti accusati di aver pestato a sangue Stefano Cucchi, opinionisti e politici tuonavano già contro la corte d'assise di Roma. E sul banco degli imputati ci finivano loro, i giudici di Cucchi, in un rovesciamento dei ruoli.

Con parole durissime e commenti affilati come la lama di un coltello. «La sentenza - spiega ad esempio il senatore Pd Luigi Manconi - dimostra il fallimento della Procura di Roma che non ha saputo svolgere indagini adeguate e si è mossa in maniera maldestra». Un linguaggio, anzi un lessico, che pareva confinato dalle parti del centrodestra e veniva presentato come un marchio di fabbrica del Cavaliere e delle sue sfuriate a testa bassa. Solo pochi giorni fa i giornali descrivevano la rabbia di Berlusconi per le motivazioni del verdetto Unipol e per l'evolversi del processo a Ruby. Andava bene così. Oggi i conti non tornano. La Repubblica si schiera offrendo ai lettori le lacrime di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, accompagnate dalla parola scandita dalla donna: «Vergogna». E l'Unità dà voce al disagio di lei, costruendo fra virgolette un titolo che è un atto d'accusa: «Non ci resta che chiedere scusa per il disturbo».

Certo, non è facile e neppure corretto accostare vicende diverse e azzardare paragoni temerari, però lo stile è lo stile. Alcuni parlamentari di prima fila del Pd, dall'effervescente capogruppo Luigi Zanda allo storico Miguel Gotor fino all'ex pm Felice Casson, promuovono a razzo una conferenza stampa e di fatto riavviano la controinchiesta, genere giudiziario che dal '68 in poi ha avuto una certa fortuna. Con i pamphlet sul volo dalla questura di Milano di Giuseppe Pinelli e poi sulle responsabilità e i depistaggi di Stato per nascondere la verità su Piazza Fontana. I Radicali reclamano addirittura l'introduzione del reato di tortura, come se non ce ne fossero già abbastanza nel nostro affollatissimo codice, un vestito di Arlecchino eternamente rammendato.

Compostezza. Sobrietà. Misura. Parole vuote davanti al grande falò che accompagna il verdetto romano. E il Psi arriva a chiedere dalla pagine di una rivista gloriosa come Mondoperaio il cambio di nome dell'ospedale in cui sarebbe avvenuto lo scempio. Insomma, non potendo incanalare altrove lo scoramento, ecco che la frustrazione si scarica dove può, ovvero sui medici condannati, loro sì, per omicidio colposo. La memoria del presidente Sandro Pertini, «che fu detenuto», è stata sfregiata dai camici bianchi e allora anche il nosocomio deve cambiare la carta d'identità e separare la storia dalla cronaca.

Come si vede c'è di tutto: comunicati, azioni simboliche, il tentativo di cambiare le norme, interviste e opinioni per accerchiare la sentenza maledetta. E c'è pure, nel Paese perennemente in guerra, la contronotizia che i medici dirigenti sono in stato d'agitazione e non accettano l'idea di finire sulla graticola, non vogliono essere additati come macellai senza cuore.

Un copione già visto - dice niente la querelle infinita su Adriano Sofri? - e che verrà rinforzato con film, dibattiti, assemblee più o meno militanti. E, chissà, pure un corteo sotto il Palazzo di giustizia della capitale. Magari, tanto per non interferire, alla vigilia del dibattimento d'appello. Un girotondo ma al contrario.

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