di Maledetto Moody's, maledetto spread. Ma come, noi, quelli del sangue, sudore e lacrime, noi virtuosi, noi sobri, noi obbedienti; noi a fare i compiti a casa, noi a cancellare il Parlamento a suon di decreti e di fiducie, noi a zittire chiunque osi aprir bocca, noi che siamo pronti anche a fare a meno delle elezioni... E loro, i maledetti, ad andar giù duri, come se fossimo Berlusconi, anzi peggio. È proprio vero, non c'è più religione.
Questi probabilmente i cattivi pensieri del professor Monti tra una chiacchiera e l'altra durante il noiosissimo meeting in Idaho. E c'è da capirlo, il professore, visto come vanno le cose. Anche se il professor Monti ha torto perché, a ben vedere, il ricatto degli spread e le cattiverie delle agenzie di rating possono paradossalmente diventare per l'Italia una grande occasione.
Come stiamo vedendo da mesi, non è con governi tecnocratici, con politiche economiche recessive o aspettando l'Europa che se ne viene fuori. Meglio fare da soli, diventando finalmente virtuosi in politica e in economia. Credibilità e, dunque, sovranità, necessarie per cambiare gli attuali equilibri nell'Unione.
A questo punto c'è un solo modo per scongiurare l'incertezza e l'ingovernabilità e per avere un'Italia credibile in Europa e sui mercati internazionali: verticalizzare la governance, eleggendo direttamente il presidente della Repubblica, assicurando una guida stabile e democraticamente legittimata. E attaccare il debito: la vera grande anomalia e debolezza dell'Italia. Due facce della stessa medaglia.
Il fine settimana del 6 maggio scorso ci ha posti davanti a un grande bivio: se somigliare di più alla Grecia, dove non si è riusciti a costituire una maggioranza parlamentare che sostenesse il governo e si son dovute indire nuove elezioni, oppure alla Francia, dove il presidente François Hollande si è insediato il giorno dopo le elezioni e si è subito messo alla guida non solo del suo Paese, ma anche degli Stati europei che vogliono un mutamento di governance a livello di Unione per mettere al sicuro la moneta unica.
Nella primavera del 2013 si determinerà nel nostro Paese una straordinaria coincidenza: la scadenza della legislatura e la scadenza del mandato del presidente della Repubblica. È un'occasione storica per mettere i cittadini nelle condizioni di poter scegliere direttamente chi li governa.
In Italia, dal 1948 ad oggi non c'è mai stato, e non c'è tuttora, alcun sistema per punire chi fa cadere i governi. Nella prima Repubblica questa situazione è stata tollerata perché i governi erano fatti dai partiti, ma dal 1994 non è più così e sono i cittadini a decidere da chi vogliono essere governati. Ribaltoni e ribaltini sono perciò un tradimento politico della volontà popolare, senza sanzione per i traditori. Nessuna riforma costituzionale ha senso se non scongiura questo rischio. Anche la legge elettorale da sola non serve a nulla. Perché il problema non è avere un governo la sera delle elezioni: il problema è evitare che una minoranza lo faccia cadere a proprio piacimento qualche mese dopo.
Nei momenti di crisi, il presidente della Repubblica non è più solo un notaio, ma il garante della continuità istituzionale e della stabilità dell'indirizzo politico-democratico. Perché i partiti dovrebbero essere più bravi dei cittadini a scegliere il capo dello Stato? L'unico (inconfessabile) motivo è che i partiti vogliono conservare il potere di nominare il capo dello Stato per fare i propri accordi sottobanco e dividersi le poltrone.
Non c'è da stupirsi allora dell'aumento dell'astensione e del voto di protesta. È quando le istituzioni sono deboli e instabili che vince l'antipolitica.
La composizione dei governi, la durata e la stabilità degli stessi, le larghe ed eterogenee coalizioni, i gruppi di interesse che le sostengono e, appunto, i conflitti che nascono al loro interno, sono le variabili che determinano, nei fatti, sempre e comunque più spesa pubblica e, quindi, più deficit, più debito. Determinano, cioè, una distorsione nella distribuzione delle risorse rispetto a quella che sarebbe generata da un sistema politico bipartitico, il quale garantisce maggiore efficienza.
La teoria economica, a tal proposito, è incontrovertibile. I sistemi elettorali proporzionali (nelle loro infinite varianti) rendono più facile l'aumento del numero dei partiti, e l'alta frammentazione politica, e per questo finiscono inevitabilmente per potenziare conflitti intragovernativi, che inducono ad una maggiore (e inefficiente) spesa pubblica.
Di contro, i sistemi maggioritari, meglio ancora se bipartitici, sono sostenuti da elettori che non possono facilmente discriminare tra differenti opzioni politiche all'interno dei governi, o tra le specificità, anche ideologiche, dei partiti all'interno di vaste coalizioni; quindi, l'unico conflitto che può nascere è quello con l'opposizione, con il risultato, di un più forte controllo sulla spesa pubblica.
Insomma, in ogni sistema bipartitico, l'arena politica mostra opzioni chiare, e altrettanto chiare funzioni obiettivo. E i risultati sono facilmente misurabili: chi sbaglia paga e va a casa.
Da questo deriva che i governi eletti in democrazie con sistemi maggioritari/bipartitici tendono a tagliare le tasse, ma anche la spesa pubblica, in modo particolare durante gli anni elettorali.
Un sistema semipresidenziale può rafforzare questa tendenza nei sistemi maggioritari, soprattutto là dove, come in Italia, la tradizione è quella della patologica frammentazione.
Le forme di governo, e ancor di più le leggi elettorali, rafforzano o indeboliscono il potere di controllo (accountability) che gli elettori hanno sui rappresentati politici eletti. Il grado di controllo, a sua volta, condiziona le performance economiche con risultati opposti in termini di finanza pubblica.
In particolare, i sistemi bipartitici rafforzano questo nesso tra elettore e obiettivi di corretta gestione della finanza pubblica. Se ciò non bastasse, i sistemi bipartitici introducono l'idea che le elezioni siano una competizione nella quale la lista delle cose da fare è già scritta prima del voto e che i partiti non siano dei semplici delegati, ma soggetti chiamati ad operare sintesi prima delle elezioni. I programmi elettorali dovranno diventare così le agende competitive, quanto alle riforme costituzionali e quanto agli impegni dell'esecutivo e del parlamento.
In questa agenda, centrale dovrà essere una rivoluzionaria strategia di lungo periodo di riduzione strutturale dello stock del debito pubblico, anticipando e spiazzando in termini di credibilità il fiscal compact, cioè il patto europeo che prevede la riduzione di un ventesimo ogni anno della quota di debito pubblico che eccede il limite massimo del 60% del rapporto debito/Pil. Obiettivo: aumentare l'efficienza, la produttività, la competitività dell'economia; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, liberalizzazioni e privatizzazioni delle public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l'economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. Il tutto per avere lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese di almeno 5 punti, per riportarla sotto il 40%, dall'insopportabile 45% attuale, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.
Il presidenzialismo, dunque, come verticalizzazione democratica e non tecnocratica della governance; e l'attacco al debito, come valorizzazione di mercato della dimensione orizzontale diffusa degli interessi dei territori e delle imprese: una vera e propria guerra di liberazione dalla cattiva politica.
L'operazione nel suo complesso (presidenzialismo, e riduzione strutturale del debito pubblico) ha in sé tutta la forza, tutta l'etica, di una vera rivoluzione.
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