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«Sono il pianista fuori posto: suono solo dove non si può»

Un uomo vestito di nero arriva nella piazza. Sospinge un carrello coperto da una gualdrappa nera. Si ferma. Toglie la tela ed ecco comparire il più inaspettato degli oggetti, uno strumento nero che luccica al sole. Un pianoforte. L'uomo si accomoda sullo sgabello e attacca a suonare, incurante del viavai circostante. Ma prima espone un cartello: «La musica ci salva». Ora il nero si nota meno. Anche il grigiore della giornata comincia a dissolversi. I passanti si fermano. Ascoltano estasiati. Applaudono. Si commuovono. Lui sorride a tutti.
È arrivato il pianista fuori posto. Così si fa chiamare Paolo Zanarella. In giro lo si vede sempre più spesso. In piazza San Marco e nei campielli di Venezia; in Prato della Valle a Padova; sul ponte degli alpini a Bassano del Grappa; e poi a Belluno, Treviso, Vicenza, Brescia, Bologna, Ferrara, Firenze. Talmente fuori posto, questo pianista, da andare a esibirsi alle 7 di mattina in un parcheggio di via Dino Villani, zona piazzale Maciachini, il luogo più inquinato di Milano. Oppure alle uscite della metropolitana di Roma, ma anche all'ombra del Colosseo, alle Terme di Caracalla, in via della Conciliazione con la basilica di San Pietro a far da sfondo. O davanti al Duomo di Orvieto. Quando gli va di strafare, su una barca che solca il Canal Grande, su una zattera addossata a Rialto o fluttuante sotto il ponte dell'Accademia, su una chiatta ancorata in mezzo al Bacino San Marco, dinanzi al Palazzo Ducale. Ma il pianista fuori posto non cerca solo le location monumentali. Suona indifferentemente in mezzo ai binari della stazione ferroviaria di Gorizia o fra i bus che a Venezia intasano piazzale Roma.
Zanarella non ha mani da pianista. Non potrebbe. S'è appena schiacciato un dito, l'ennesimo, e ora un brutto ematoma gli sta sollevando l'unghia. Incidenti inevitabili quando devi portarti in giro per l'Italia da solo un Kawai a mezza coda. Dopo aver attrezzato un ecologico furgone Ducato a metano («così mi lasciano entrare nei centri storici»), ha chiesto in prestito per due giorni all'amico Adriano Marconato l'officina di carpentiere. Ne è riemerso con un sofisticato marchingegno idraulico che gli consente di caricare, scaricare e trasportare il pianoforte.
D'inverno, poi, le mani non le sente più per via del freddo. Cominciano a correre sulla tastiera alle 8 di mattina e non smettono mai prima delle 8 di sera, anche quando il termometro scende sotto lo zero ed è avanzato il tempo solo per un caffè. Ma che gl'importa se poi Irina e Vladimir Lavlinski, una coppia di israeliani che lo hanno sentito per caso suonare per strada a Padova, gli scrivono da Ashdod per confidargli che la sua musica è diventata la colonna sonora della loro vita, «a casa, al lavoro, in macchina, ovunque»?
Il pianista fuori posto, a essere sinceri, non è nemmeno un pianista. Suona per passione. Non usa gli spartiti. Non ha mai frequentato il conservatorio. Ha imparato a leggere la musica e a comporla da autodidatta. Nella vita di tutti i giorni fa l'imprenditore. Ha cominciato a 22 anni aprendo un'azienda cartotecnica. S'è specializzato come inventore. Nell'innovazione tecnologica è un fenomeno. Suo il brevetto della borsa usa e getta nella quale possono essere stivate otto scatole di pizze d'asporto. Ora sta per lanciare sul mercato i sacchetti di carta biodegradabili che reggono fino a 15 chili di spesa.
Zanarella è nato nel 1968 a Campo San Martino (Padova), quarto di sei fratelli. Ci abita tuttora. Padre falegname, madre casalinga. Date le ristrettezze economiche, all'età di 10 anni fu mandato in seminario. Il tempo di finire il liceo classico e si rese conto che il sacerdozio non era la sua strada. A 20 anni, già avanti con gli studi teologici, decise di uscire. Nel 1993 si sposò. Ha tre figli.
Il pianista fuori posto sarebbe diventato un buon prete. Di quelli, sempre più rari, a posto. Lo s'intuisce ascoltando il suo Cd d'esordio, autoprodotto nel 2009. S'intitola L'amour, come il primo dei 12 brani: «L'amore ascolta ogni silenzio / l'amore avvolge ogni mistero / l'amore apre all'infinito / di ogni cosa è respiro / l'amore è forza della vita / che può cambiare ogni presente». Anche il dodicesimo brano s'intitola L'amour, ma lì il suo pianoforte è sovrastato dai cantori, un'armonia che pare provenire dall'abbazia cistercense di Aiguebelle. Lo precede un altro corale di virile soavità, Ave Maria. Delle due l'una: o il pianista fuori posto ha sbagliato mestiere o è andato più avanti.
A che età ha cominciato a suonare?
«A 9 anni, su un vecchio pianoforte inglese usato da mio fratello Ernesto, che prendeva lezioni da un maestro privato. Poi ho studiato musica per conto mio, sino a diventare l'organista ufficiale del seminario vescovile. Oggi ho la fortuna di potermi esercitare in casa su uno Steinway a coda, la Ferrari dei pianoforti. Nuovo, costerà 80.000 euro».
Perché si esibisce per strada?
«Tre anni fa ho tenuto il mio primo concerto nel teatro settecentesco di Cittadella. Spettatori in piedi. Credevo fossero venuti per me. Non mi rendevo conto di trovarmi vicino a casa. È bastato spostarmi di altri 30 chilometri e già non mi conosceva più nessuno. All'Mpx di Padova, una multisala da 500 posti, ci saranno state sì e no 100 persone. Uscendo, ho visto le strade piene di pedoni e mi sono detto: se loro non vengono da me, andrò io da loro».
Con quali brani li attira?
«Se potessi gli farei ascoltare Bach, Mozart, Chopin, Beethoven. La mia preferita è l'opera 8 numero 9 da Il cimento dell'armonia e dell'invenzione di Vivaldi. Ma capisco che nelle piazze funzionerebbe poco. Per cui li attiro con musica melodica che invento sul momento. Oppure con le colonne sonore di Ennio Morricone, Nicola Piovani, Stelvio Cipriani e James Horner. O con gli evergreen: Lucio Battisti, Adriano Celentano, Mina, Elton John, Frank Sinatra, i Beatles, i Queen. L'amour piace più di qualsiasi altro brano, forse perché m'è venuto di getto. Ti taglia a metà, ti travolge. Doveva diventare il tema di un musical ispirato a Uccelli di rovo. Avevo chiesto l'autorizzazione all'autrice del libro, l'australiana Colleen McCullough. Purtroppo me l'ha negata».
L'esibizione più insolita?
«Alla fiera del bestiame di Santa Lucia di Piave ho suonato alle 7 di mattina, con zero gradi, solo per gli asini. M'è parso che gradissero. Per provocazione ho portato il pianoforte anche su una frana a Santo Stefano di Cadore. Le autorità locali non si decidevano a sistemarla. Dopo il mio concerto sono subito arrivate le ruspe. Un'altra volta ho visto un bosco sul monte Grappa che m'ispirava, ho scaricato lo strumento dal furgone e mi sono esibito per me stesso. Di recente sono andato davanti al seminario minore di Tencarola, costruito all'epoca in cui nella diocesi di Padova fiorivano le vocazioni. È lì che ho studiato. Oggi è una cattedrale nel deserto, abbandonata da anni. Meritava d'essere riconsacrata almeno per un giorno con un po' di musica».
È accolto bene dappertutto?
«Sì, tranne che dai vigili urbani. A Venezia, in piazza San Marco, mi hanno fatto sloggiare dopo appena 10 minuti, spiegandomi che il permesso per il centro storico lì non valeva. Poverini, loro sono fiscali, seguono i regolamenti. Gli artisti di strada non dovrebbero pagare nulla, solo 30 euro di marche da bollo. Ma io non uso la chitarra o la fisarmonica. E qui subentra l'equivoco, perché non esiste una legge che preveda l'utilizzo ambulante del pianoforte, quindi scatta l'occupazione abusiva del suolo pubblico. I vigili di Padova mi hanno fatto due verbali, prendendo addirittura le misure dello strumento».
E lei?
«Ho telefonato al sindaco Flavio Zanonato, chiedendogli un appuntamento. “Per quale motivo?”, mi ha domandato. Devo farle un regalo, ho risposto. “Allora venga pure”. Gli ho portato una foto con dedica mentre suono in Prato della Valle, il più grande spazio aperto d'Europa dopo la piazza Rossa di Mosca. Alla fine c'è stata una sollevazione popolare e il comandante della polizia urbana ha dovuto stracciare la multa. Anche a Vicenza mi era stata elevata una contravvenzione, ma non è arrivato nulla da pagare».
Quanti concerti tiene in un mese?
«Fermo un attimo! Non sono concerti, ma più che altro sessioni d'esame».
D'accordo. Quanti?
«Tutti i fine settimana».
Costano molto questi blitz?
«Non ne parli. A Venezia costano da morire: 60 euro l'ora più Iva per il noleggio della zattera. Solo per raggiungere piazza San Marco ho speso 250 euro».
E non chiede soldi.
«Mai. Chi vuole può portarsi via il Cd e lasciare un'offerta. Le anziane di Venezia si preoccupano molto per me: “Te me fe de pecà”, mi fai pena, “rièssito a vivar? gh'eto faméia?”, riesci a vivere? hai famiglia?».
Appunto, la sua famiglia che dice?
«È contenta. Per mia moglie e i miei figli è normale avere un marito e un padre che suona in luoghi impensati, non saprebbero immaginarmi felice in nessun altro modo. E poi il fatto che Gioia, la mia primogenita, studi pianoforte e sia già al quinto anno di conservatorio dà un senso compiuto al nome di battesimo che le abbiamo scelto».
Almeno sua figlia non diventerà una pianista fuori posto.
«Siamo abituati a pensare al pianoforte in teatro. Ma il complimento che tutti mi fanno per strada ha cambiato la mia prospettiva: “Paolo, non sei fuori posto. Sei nel posto giusto”».
Come fa a concentrarsi nel rumore del traffico?
«Mi estranio. Quando suono, per me il resto del mondo tace. Guardo in faccia la gente e cerco di trasmetterle tenerezza. M'illudo di riuscirci perché tanti mi dicono: “Per fortuna che sei qui anche stamattina”. Oppure: “Mi hai cambiato la giornata”. Dai messaggi che ricevo via Internet ho capito che ormai è diventata una missione. L'umanità ha un bisogno disperato della musica».
Qual è il luogo più suggestivo dove si è esibito?
«Il Canal Grande è incomparabile. Su un barcone scortato dai gondolieri ho eseguito la Marcia funebre di Chopin al funerale di Venezia, il 14 novembre 2009. Un modo per scuotere la città, dove la popolazione residente era scesa ad appena 60.000 abitanti, e ancora sta diminuendo. C'era anche la bara. Alla fine però l'abbiamo sfondata ed è uscito il drappo bianco col simbolo della Fenice. Post fata resurgo. Dopo la morte mi rialzo. Speriamo sia vero».
Conoscerà molta gente, grazie a questa sua passione.
«Mi sono fatto migliaia di amici, certo. La regista Francesca Elia mi ha sentito suonare per caso a Lepre, sul Grappa, e ha voluto che le componessi la colonna sonora per un documentario sulla prima guerra mondiale prodotto dalla Rai».
Che differenza c'è fra lei e Giovanni Allevi?
«Perché mi fa questa domanda? Dal punto di vista tecnico è bravo, ha fantasia. Dopodiché non è Chopin neppure lui, e io meno ancora. L'ultima che s'è fermata ad ascoltarmi alle 7 di sera sotto il ponte di Calatrava a Venezia era una docente del conservatorio. Alla fine mi ha detto: “Non m'interessa come ha suonato. Però è riuscito a emozionarmi”».
A che serve la musica?
«A vivere. Nessuno può farne senza. Qualche mese fa mi ha avvicinato per strada un grosso imprenditore: “Sai, credo che il tuo sia il più bel mestiere del mondo. La gente non ha bisogno di quello che faccio io, ma di quello che gli dai tu: passioni, non cose”».
Lo chiedo al prete mancato: che rapporto c'è fra musica e religione?
«La musica è in assoluto il linguaggio di Dio. Per me è anche preghiera».
Ha mai conosciuto musicisti atei?
«Molti. Sono persone che non credono in Dio fino all'attimo in cui cominciano a suonare».
E ha mai conosciuto qualcuno che non avesse interesse per la musica?
«Sì, l'altro giorno a Vicenza, davanti al Teatro Olimpico. Passa un signore sui 50 anni, dall'aria distratta. Si ferma, ascolta, non va più via. Quando smetto di suonare, si avvicina: “Sono un esperto di comunicazione. Odiavo il pianoforte. Ma oggi ho capito che sono diventato un esperto di comunicazione per nulla”».
(624. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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