Lo spread impazzito torna a 424 Vegas: «È la dittatura del mercato»

Lo spread impazzito torna a 424 Vegas: «È la dittatura del mercato»

Massimo Restelli

«Basta con la dittatura dello spread». Parole in libera uscita di qualche grillino? Il coro di piazza di un gruppo di indignatos? Macché: a parlare è Giuseppe Vegas, presidente della Consob. Ovvero, uno degli organismi istituzionali tradizionalmente più misurati nell’arte della comunicazione, più propensi a sfumare piuttosto che a dar d’accetta. È una guerra dichiarata alla speculazione internazionale, ma ha tutta l’aria anche di un attacco alle politiche del rigorismo imperanti: dalla Merkel alla Bce, giù giù fino a Mario Monti.
Vegas parla a Piazza Affari, in quella che un tempo era la Sala delle grida. Urla nel silenzio, mentre fuori si sta scatenando l’ennesima tempesta perfetta sui mercati provocata dalla batosta elettorale subita da Frau Angela nel Nord Reno-Westfalia e, soprattutto, dall’incagliarsi del Titanic-Grecia sullo scoglio dell’ingovernabilità. Di lì a qualche ora, sarà servito l’ennesimo piatto indigesto: 120 miliardi di euro polverizzati dalle Borse, finite al tappeto sotto il peso di una perdita dell’indice Stoxx 600 dell’1,80% (ma Milano è collassata del 2,74% a causa del picco raggiunto dal debito pubblico italiano) e con lo spread Btp-Bund, eccolo di nuovo, tornato a far paura a 424 punti.
Non sembra insomma bastare il pressing dell’Eurogruppo su Atene, i continui richiami al rispetto degli impegni: il differenziale comanda, impone le sue regole. Dittatura? Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ascolta le esternazioni di Vegas, e poi minimizza non avendo colto «accenti catastrofisti» dalla relazione. Di più: per lui, la dittatura dello spread è «un modo di dire». Difficile, però, ridurre a semplice slogan le parole del numero uno della Consob. Quello di Vegas è un pensiero articolato, con passaggi che non possono liquidarsi con una battuta come successo con Grillo e il suo boom: in Europa - spiega Vegas - cresce «l’insofferenza» verso «la dittatura dello spread, vista come ostacolo alle aspirazioni dei popoli». Lo spread è un numero, e affidare il futuro a una cifra è un «modo per abdicare ai nostri doveri». Vegas vede, inoltre, un pericolo per la democrazia, perché lo spread, che dipende dalle scelte «di un soggetto invisibile, il mercato, attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, vanificando il principio del suffragio universale».
Ad aggravare la situazione, sottolinea Vegas, è il peso dei debiti sovrani e le alchimie della finanza. Di qui l’ipotesi di «divieti specifici» contro i titoli tossici, ma con un occhio attento anche a quei derivati (con chiaro riferimento al maxi-buco di JpMorgan) che hanno portato alla mutazione genetica gli Etf (i fondi passivi arrivati a 18 miliardi di patrimonio). Spetta alla classe dirigente «tutelare il sistema democratico dal continuo assalto della speculazione», spiega Vegas. Ora siamo a un «bivio» che porta alla necessità di affiancare alle manovre di risanamento dei conti pubblici le «scelte che possono garantire una crescita stabile», adottando soluzioni comuni a livello europeo. A partire dalla «mutualizzazione» del debito pubblico dell’Eurozona. Un pensiero non proprio à la Merkel.
Poi ci sono gli antichi mali di Piazza Affari, come le quotazioni col contagocce. Rimedio possibile: il debutto sul listino delle imprese pubbliche che operano secondo logiche di profitto, per esempio le Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, così da stimolare altre imprese. Più in generale si avverte il bisogno di rivedere il Testo unico della Finanza e il Codice civile, per semplificare l’intera materia del diritto delle società quotate a quasi 15 anni dall’ultima riforma.
Soprattutto, spiega la Consob, vanno rivisti certi comportamenti.

Come quelli delle banche italiane, che nel 2011 hanno venduto ai piccoli investitori obbligazioni a tasso fisso (per lo più fatte in casa) con rendimenti in media inferiori di 40 punti base rispetto ai Btp di pari durata, mentre ai grandi investitori istituzionali (come assicurazioni e fondi) hanno riservato guadagni che superavano quelli dei titoli di Stato dello 0,60 per cento.

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