Stasi, il papà che fino alla fine non ha abbandonato suo figlio

Se n'è andato la sera di Natale, in attesa dell'ennesimo processo ad Alberto Per anni ha dovuto convivere con indagini, maldicenze e infinite udienze

Stasi, il papà che fino alla fine non ha abbandonato suo figlio

Del piccolo mondo di Garlasco era uno dei protagonisti: il papà. Anzi, il padre del sospettato. Nicola Stasi, sempre pronto a difendere Alberto dall'accusa sempre risorgente di aver ucciso la fidanzata Chiara. Difficile convivere con un ruolo così pesante per anni, in un turbinio di chiacchiere, maldicenze e poi indagini, interrogatori, processi, sentenze. Sei anni su una specie di ottovolante, con l'assoluzione definitiva sfuggita fra le dita. Nicola Stasi era un combattente ma anche le rocce si sgretolano e la sera di Natale è morto all'ospedale di Pavia, dove era ricoverato nel reparto di ematologia. Quell'etichetta, il genitore dell'imputato, era ormai diventata un marchio a vita e Stasi senior si preparava al nuovo processo d'appello di cui non era ancora stata fissata la data. «Avremo davanti altri anni massacranti», aveva affermato in un'intervista dopo il verdetto della cassazione che di fatto aveva riaperto il caso e collocato a forza il figlio sul banco deserto degli imputati. Quell'attesa, quella penombra, quel limbo sospeso fra colpevolezza e innocenza, può anche essere peggio di una condanna per omicidio. L'incertezza uccide: goccia a goccia, giorno per giorno, ma poi presenta il conto.
Per carità, forse Stasi se ne sarebbe andato ugualmente, ma non è la prima volta che in Italia muore una persona inchiodata alle posizioni stabilite dalla carta bollata: c'è chi diventa un imputato per tutta l'esistenza e chi di riflesso assume la parte, due volte scomoda, del padre dell'indagato. Peggio ancora, nel mondo piccolo di Garlasco Alberto Stasi era ed è l'unico sospettato, l'unico indagato, l'unico fermato, una sorta di titolo unico, prolungato per mesi e poi per anni. Così dal 13 agosto 2007. E lui, papà Nicola, non ha mai disertato, è restato sulla prima dei media a rintuzzare, a difendere, a spiegare, a giustificare, a soffiare via quella nuvola nera ancorata alla testa di Alberto.
Non dev'essere facile aprire i giornali o guardare le tv e trovare una cascata quotidiana di articoli che parlano di tuo figlio. Sia detto, senza retorica perché la condizione dei coniugi Poggi, il padre e la madre di Chiara, non si riesce neanche a immaginare. Ma anche essere i genitori di Alberto dev'essere stato un macigno. Nella partita a dadi della giustizia italiana, tutte le mosse e tutti i risultai sono buoni. Il problema è che il tempo della raccolta è spesso fuori tempo. Arriva tardi. Troppo tardi, se serve a sancire un'innocenza rubata, tardi, troppo tardi se è il sigillo su una colpevolezza abilmente mascherata.
La giustizia italiana offre suggestioni, prove che sembrano mattoni e si squagliano alla prima obiezione, sentenze che fanno a pugni le une con le altre, ritorni alla casella di partenza come nel gioco dell'oca. Se non sei un criminale matricolato, magari da più generazioni come nella cultura mafiosa, allora il gioco, chiamiamolo così, ti può stroncare. Il tempo nella clessidra si assottiglia fino a finire per i familiari della vittime, ma diventa un cappio anche per chi deve portare sulle spalle un alone di colpevolezza. E non può scrollarselo di dosso, perché le analisi, le perizie, i giudici hanno bisogno di anni e anni. E il tempo della liturgia non è quello della vita.
Essere il padre della vittima è sprofondare in un abisso. Se poi la giustizia è un torneo senza fine, il logoramento può diventare insostenibile. E si può morire come è morto Renzo Rontini, il padre di Pia, squartata del mostro di Firenze nelle campagne di Vicchio, stroncato da un infarto su un marciapiede a due passi dalla questura dove andava giornalmente a chiedere notizie. Ma la morte, a suo modo imparziale, può portare via anche il genitore che si ostina a tutelare il suo ragazzo e il suo nome e il suo onore, caduti nella polvere e calpestati ma non fino a renderli irriconoscibili. Se poi si abita nel perimetro stretto di Garlasco, dove papà Nicola gestiva una rivendita di autoaccessori, pure perquisita a scoppio ritardato in un'inchiesta slabbrata e male assortita, tutto si fa ancora più complicato.

E il mondo piccolo del paese soffoca: la famiglia di Chiara toglie il saluto perché i Poggi un po' alla volta si convincono che la chiave del delitto sia nel rapporto fra la figlia e Alberto; in paese a parole portano la solidarietà ma poi chissà cosa pensano. E c'è il tormento delle foto e dei filmati di repertorio che scorrono a rullo. Un carosello senza fine. Se la fine non interviene prima.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica