La maionese delle riforme sta impazzendo. Ieri sull'abolizione del bicameralismo è arrivato il siluro di Berlusconi. E nel Pd renziano c'è chi comincia a dire a voce alta quel che il premier finora ha usato come pistola sul tavolo: «Meglio andare al voto», afferma drastico Roberto Giachetti. «Pensaci Matteo: chi te lo fa fare? Facciamo saltare il tavolo di questo ceto politico che non vuole riforme e ascoltiamo gli elettori». Renzi però lo frena: «Giachetti esagera. Ma se Berlusconi vuol far saltare l'accordo rischia di ritrovarsi con un'accelerazione sull'Italicum, con ballottaggio e soglie. I numeri ci sono. E poi voglio vedere come va a finire».
Berlusconi è stato chiaro: «Per ora la legge elettorale è spiaggiata a Palazzo Madama. Se poi andrà avanti la riforma del Senato, credo che difficilmente l'Italicum potrà essere costituzionale», dice il Cavaliere. Che Forza Italia fosse irrequieta e divisa sulla riforma del Senato (e sul concedere una nuova vittoria a Renzi in campagna elettorale) si era visto in questi giorni. Ma Berlusconi un paio di settimane fa, dopo l'incontro a palazzo Chigi, aveva ribadito l'impegno a mandare avanti il pacchetto del Nazareno. Ora però Forza Italia ha gioco facile a buttare la croce degli accordi non mantenuti sul Pd, dentro il quale gli anti-renziani fanno muro contro le riforme: «Prima ancora che da noi», dice il Cavaliere, «la riforma non è accettata dentro il Pd. Escludo che possa essere votata prima delle Europee». A capeggiare i resistenti Pd è l'ex Pci Vannino Chiti, che ha presentato un ddl alternativo a quello del governo. Punto centrale difeso da Chiti e compagni: l'elettività del Senato, con relativo mantenimento delle indennità. Un punto non da poco, perché «fa rientrare dalla finestra quel bicameralismo perfetto che si vuol far uscire dalla porta», come sottolinea il senatore Pd Giorgio Tonini.
Dietro le quinte, preme sui dissidenti e si oppone strenuamente alle riforme renziane anche la potente lobby dei funzionari del Senato, che ha da perdere ancor più dei senatori: basti pensare che secondo i dati acquisiti dallo stesso Tonini, ci sono solo a palazzo Madama ben 47 (quarantasette) dirigenti, dal segretario generale in giù, che intascano stipendi molto più alti di quello del presidente Napolitano. In diversi casi addirittura doppi rispetto al capo dello Stato. Chiaro che il loro «no pasarán» sia ferreo. Sulla stessa linea si sono attestati anche i Cinque Stelle, e se ora anche i berlusconiani cambiano campo, il naufragio è sempre più probabile. Si capisce dunque perché l'allarme sia altissimo, anche al Quirinale, come testimonia la convocazione, ieri, di Anna Finocchiaro, la presidente della Commissione Affari costituzionali che ha in mano l'aggrovigliata matassa. E che ieri mattina ha ribadito al presidente quel che nel Pd tutti i fautori delle riforme ripetono: lo snodo cruciale è Forza Italia, se salta quell'argine la fronda Pd rischia di diventare incontrollabile. E a nulla varranno i tentativi di mediazione, come quello proposto dal lettiano Francesco Russo (eleggere i futuri senatori nelle liste dei Consigli regionali).
Martedì Renzi ha convocato una assemblea dei senatori Pd per un definitivo chiarimento. «Su questa riforma non sono disposto a perdere la faccia», ha ribadito in questi giorni.
E le durissime parole di Giachetti contro i «guastatori» illustrano come lo scenario sia vicino al punto di rottura, considerato anche che i sondaggi interni danno il Pd al 35%: «C'è una convergente azione dentro e fuori il Pd che punta a far saltare ogni riforma a priori. E allora facciamo un referendum con gli elettori, andiamo al voto: almeno avrai il diritto di guidare un governo con un gruppo parlamentare coeso e leale».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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