Nel Duemila l'Italia era il quinto Paese industriale del mondo. Da allora un costante declino ci ha spinti verso il basso, e l'anno scorso siamo retrocessi all'ottavo posto, superati dal Brasile. Nel giro di soli sei anni siamo stati sorpassati dapprima dalla Corea del Sud, e poi dall'India. Adesso anche la manifattura brasiliana ci supera con un 2,8% della produzione mondiale contro il nostro 2,6%. Anche in Europa il nostro tradizionale secondo posto, alle spalle della Germania, appare a rischio: la Francia si sta preparando al sorpasso.
Certo, dal Duemila ad oggi il mondo è cambiato profondamente: la Cina, che raggiungeva una quota dell'8,3% della produzione mondiale è arrivata al 30,3%. Gli Stati Uniti hanno perso dieci punti percentuali, e nove punti il Giappone. Ma quel che è accaduto in Italia è diverso rispetto agli altri Paesi: l'arretramento, spiegano al Centro studi della Confindustria nel rapporto Scenari industriali, va al di là dell'avanzata fisiologica dei Paesi emergenti, perché è stato accentuato da «demeriti domestici». Nel periodo 2007-2013 la produzione è scesa del 5% medio annuo, una contrazione che non trova riscontro in nessun altro grande Paese manifatturiero.
I numeri del bollettino di guerra, come lo definisce il presidente degli industriali Giorgio Squinzi, parlano da soli. Negli ultimi dodici anni 120mila imprese manifatturiere hanno chiuso i battenti, e un milione e 160mila addetti sono rimasti senza lavoro.
La profonda crisi industriale che ha colpito al Paese non ha risparmiato alcun settore, con la sola eccezione dell'industria alimentare. Vanno meno male di altri comparti, la carta, la metallurgia, i medicinali, l'ottica, la chimica e l'abbigliamento, anche se tutti mostrano il segno meno. Colpisce la scomparsa di fatto del settore computer e macchine per ufficio (-99,3%), «un comparto sostanzialmente sparito, mentre in altri Paesi è andato bene con una produzione cresciuta dell'81,7%», osserva il direttore del CsC, Luca Paolazzi. Malissimo anche l'elettronica e l'auto. In breve, mentre la produzione manifatturiera globale è crescita, fra il 2000 e il 2013, del 36%, in Italia ha subito un crollo del 25%.
Le colpe del disastro? Il forte calo della domanda interna, l'asfissia del credito, l'aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, la redditività che ha toccato nuovi minimi. Ma ci sono anche le colpe dell'Europa: politiche fiscali restrittive, «e il paradosso di un euro che si apprezza, specialmente nei confronti delle monete di molte economie emergenti, frenando le esportazioni». Tutta l'Europa arretra, solo Germania e Polonia tengono duro, ma fino a quando?
Il presidente degli industriali ammette che quel che è successo all'economia italiana in questi anni «è dovuto a demeriti soprattutto nostri». Adesso la priorità assoluta è l'occupazione. Ma per creare posti di lavoro, attacca Squinzi, occorre puntare decisamente sul rilancio del settore manifatturiero: «Senza un'industria in salute non c'è crescita, e senza crescita non c'è lavoro». E dà atto al ministro Federica Guidi di perseguire un approccio «pro industria, come da tempo chiedevamo». Le imprese non sono rassegnate a un destino «crudele e ineluttabile».
Ma bisogna aver chiaro, insiste il presidente della Confindustria, un dato: «Tre quinti della riduzione dei volumi prodotti non sono recuperabili negli stessi beni e attività che esistevano prima della crisi». Quindi è necessario cambiare, anche con scelte «di rottura».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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