Cultura e Spettacoli

"Ti pulirei le scarpe". L'amore (inedito) secondo la Fallaci

Due faldoni di documenti autografi svelano la sofferta relazione terminata nel 1959 col giornalista Alfredo Pieroni

"Ti pulirei le scarpe". L'amore (inedito) secondo la Fallaci

Alfredo Pieroni, il primo amore della Fallaci, in vecchiaia era solito leggere e rileggere le lettere che Oriana gli aveva scritto negli anni Cinquanta. Le aveva conservate gelosamente, nonostante la loro relazione fosse finita male, quasi in tragedia. Oggi la corrispondenza autografa è in mano alla nipote Wanda Pieroni Maccani. Sono circa 100 documenti raccolti in due faldoni. Il materiale è composito: include lettere scritte a mano e dattiloscritte, piccoli racconti, biglietti, cartoline, fotografie. Una parte delle lettere, di cui si conserva comunque anche l'originale, è stata fotocopiata. Le riproduzioni recano in alto a sinistra una serie numerica che si direbbe un tentativo di archiviazione. Secondo l'attuale proprietaria, i faldoni potrebbero essere incompleti. Una manina «nemica» avrebbe sottratto una parte delle carte proprio con la scusa di fotocopiarle. La salute non consentì a suo zio, morto nel 2011, di opporre resistenza. Questo spiegherebbe due fatti: la mancanza di una parte ben definita della corrispondenza (quella iniziale) e la confusione in cui versano i documenti dal punto di vista cronologico.

La vicenda era nota a pochissimi fino alla recente uscita dell'ottima biografia Oriana. Una donna (Rizzoli) firmata da Cristina De Stefano, che, nel capitolo dedicato a questa storia, ha utilizzato la minuta delle lettere di Oriana, trascritte nei passaggi funzionali al più ampio racconto. La corrispondenza è dunque conosciuta ma tuttora quasi completamente inedita. Come vedremo, questo episodio, lungi dall'essere una semplice curiosità, avrà un impatto forse decisivo non solo sulla vita ma anche sull'opera della Fallaci. Servendoci della biografia come bussola, ecco un piccolo viaggio nel privato di Oriana. Da notare: Pieroni mai rispose alla scrittrice o almeno non conservò traccia alcuna delle proprie risposte. Non è chiaro a quando risalga il primo incontro. I primi riferimenti cronologici riguardano il libro I sette peccati di Hollywood, proposto dalla Longanesi alla Fallaci nella primavera del 1958. È però chiaro che i due già si conoscevano. La signora Wanda ricorda di aver sentito parlare lo zio Alfredo di una relazione durata, tra alti e bassi, circa cinque anni. Nel 1958 Pieroni era corrispondente da Londra della Settimana Incom illustrata. Lui, nato nel 1923, era più vecchio di sette anni e molto meno famoso. Tuttavia l'indomabile Fallaci desidera quasi annullarsi per amore suo. Mollerebbe tutto per avere quello che «vogliono tutte le donne»: una casa e dei figli. Si va oltre. Quando la passione è all'apice, Oriana scrive: «Sto attraversando un brutto periodo, tutti mi danno dispiaceri (...) sono depressa e delusa e tu sei il solo, lo giuro, che mi aiuti a respirare. Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa, se posso fare qualcosa per te, dammi buone notizie. Darei vent'anni (ammesso che me ne restino tanti) per mandare al diavolo il mondo ed essere ora in Princes Gate a pulirti le scarpe». L'arrendevolezza è sorprendente. Non sorprende invece la consapevolezza che la storia finirà male. Lui non vuole legami fissi, tanto meno mogli e figli. Sull'argomento sembra essere stato sempre schietto. Inoltre Alfredo piace, e molto. Non è un mistero per la Fallaci: «Io esisto ed esisto con le mie virtù e con i miei difetti per te e per quante ragazzuole tu ti possa portare a cena o in campagna o a casa tua, e per quanto ti possa piacere il fatto che sono più snob o più ricche di me, nessuna sarebbe mai capace di amarti e di sopportare tante ingiustizie come me».

Eppure Oriana vuole crederci. Nei momenti buoni, gli manda biglietti e raccontini spiritosi. Come questo «sogno dalla Turchia»: «Il falco Astore era in cima a un minareto così lei allungò la mano e lo acchiappò. Lui divenne un principe con la lobbia e un muezzin li sposò. Nel sogno lo avevo scambiato per te. Ti amo anche da Istanbul». O come questa cartolina da Teheran: «Bene. Fa' pure. Ma io sposo lo Scià. Oriana Fallaci in Pahlavi».
Nella corrispondenza si intravede un tentativo di normalità, tutto affidato all'iniziativa di Oriana che all'amante invia stoffe, sferruzza maglioni, regala un orologio d'oro da panciotto, procura le medicine. A dire il vero, sembra una normalità simulata. Le lettere sono quasi sempre dolenti: «E anche se ora tu (non, ndr) mi vuoi bene, o me ne vuoi solo un pochino, penso che se riesco a resistere, cioè a vivere, può darsi che anche tu un giorno riesca a volermene: e allora sarà il giorno del miracolo e potrò permettermi di finire sotto un tram (...) Continua ti prego a permettermi di volerti bene: ci sono momenti in cui non mi sembra di avere che te al mondo e da questo non può venirti alcun male, ma solo bene». Oriana implora attenzione certa di non riceverla: «Per questo ti prego, sii gentile con me (...) Allora speravo di averti. Ora non mi pongo più nemmeno quella speranza».

Nella primavera del 1958, la scrittrice è incinta. Non si illude: Pieroni non è interessato a mettere su famiglia. In più ha paura di perderlo. Da qui in avanti la corrispondenza è tragica. La Fallaci pensa all'aborto. Con decisione, all'apparenza. Le serve aiuto: «Ti chiedo un favore, scusandomi di darti un odioso disturbo: ma tu capirai. Guarda se trovi (a Londra, ndr) qualcuno capace di risolvere tutto nel minor tempo possibile: qualcuno che naturalmente sia bravo e non mi mandi al Creatore. Provaci se ne hai voglia, beninteso, se vuoi, se puoi, se questo non ti imbarazza o non ti fa perdere troppo tempo». In realtà l'aborto è un sacrificio necessario per non allontanare Alfredo. Nella stessa lettera si legge: «Ciao tesoro, tutto questo non mi piace e mi costa una grande fatica e un giorno, se tu vorrai ancora vedermi, ti dirò perché. Però so, con sicurezza, che devo farlo; perché se non lo facessi, rovinerei o turberei, almeno, la tua vita: e della mia non mi importa molto, sebbene me ne importi un po', ma della tua me ne importa moltissimo e non sopporto che tu debba portare un peso così grave». Nello stesso periodo gli scrive: «L'idea di perderti mi sconvolge al punto di togliermi ogni forza, come se fossi già morta. (...) Non ho paura di sentirmi male: il dolore fisico non è importante e io non lo temo. Ho paura che, dopo, tu non mi voglia nemmeno un poco di bene perché non è sapendoti legato a una qualsiasi “responsabilità” che io ti voglio.

A quel modo anzi mai. In que­sti giorni è come se fossi completa­mente sola, capisci, come se non avessi nessun altro al mondo all’in­fuori di te e questo non significa farti partecipare ad una qualsiasi respon­sabilità, ammesso che esista, ma chiederti di essere buono con me, e di “perdonarmi”».
Nel maggio 1958 Oriana ha un aborto spontaneo. Il feto è morto, lei rischia la vita. Finisce in ospeda­le. Poi torna in hotel. È la fine di ogni speranza: «C’è sempre stato un in­confessato ottimismo in me: un osti­nato resistere alle disgrazie, ed una misteriosa forza di recupero. Ma ora sento, con lucidità, che questa forza sta per andarsene. Non è per­ché il taglio mi duole e le gambe non mi obbediscono ma perché, ragio­nando, ho capito quanto sia irrime­diabilmente sola e che nemmeno questa disastrosa esperienza è servi­ta a portarti vicino a me, e non posso certo condannarti per questo: sei stato, oltretutto, premuroso e genti­le » .
Si sente scivolare in una brutta de­pressione: «Vivo nella più assoluta, squallida abulia. Non mi importa più di nulla, non voglio più nulla, non spero più nulla: e questa ama­rezza rassegnata è peggio, in certo senso, della disperazione che mi sconvolgeva dopo quel terribile weekend a Londra, esploso nei tuoi rimproveri e poi in quella spiegazio­ne utile e one­sta, lo sap­piamo, ma che nel fondo non desidera­vo. L’equivoco mi dava speran­za e un senso alla vita. La verità mi mette solo un gran sonno, una placida voglia di morire, mi toglie insomma ogni gusto alla vita. No, non temere: non prenderò pillole come Cesare Pa­vese. Ho troppo buonsen­so, malgrado tutto, e trop­po senso del ridicolo. Però è come se le avessi già pre­se » .
Il suicidio è evocato con pre­occupante costanza. Scrive an­cora a Pieroni, ma il tono è cam­biato: «Mi è un poco difficile scri­verti, ormai, e tutto sommato vor­rei riuscire a non farlo. Ormai non sono nemmeno sicura che ti faccia piacere». Al termine di un lungo esaurimento nervoso chiede l’enne­simo incontro, forse l’ultimo, quel­lo decisivo. Va a Londra e gli fa reca­pitare questo biglietto: «Caro Alfre­do sarò lunedì mattina a Londra. Ci resterò per ventiquattr’ore prima di andare a Bruxelles. Scenderò al Nor­mandia. Aspetterò una tua telefona­ta, o un messaggio. Io non posso e non devo chiamarti. Ma spero che tu lo faccia. Lunedì è il mio comple­anno. Vorrei, anche se tutto è finito, passare almeno la sera con te. Per­ché io ti amo sempre, malgrado tut­to. Non c’è proprio nulla da fare. Ti amo, Oriana».
Lui non si fa vivo. Lei pasticcia con le pillole, forse tenta il suicidio. La direzione dell’albergo chiama la fa­miglia, che riesce a gestire con di­screzione la faccenda. Come raccon­ta Cristina De Stefano, ci vorrà mol­to tempo a Oriana per riprendersi. Tornata in Italia, dovrà affrontare la clinica psichiatrica, altra esperien­za traumatica «di cui parlerà anni dopo in una lettera a un amico inti­mo, descrivendo i letti con le cin­ghie di cuoio e le inferriate alle fine­stre » (De Stefano).
In questa stessa lettera descrive la scena terribile del feto morto, gran­de come una noce, gettato dal medi­co tra le garze e le fiale.È un’immagi­ne che la perseguita, dice. Aggiunge che la sua capacità di provare amo­re e tenerezza è morta insieme col suo bambino.
A questo punto è davvero difficile non pensare a Lettera a un bambino mai nato (Rizzoli, 1975). Come emerge dalla biografia, il romanzo più famoso della Fallaci è scritto di getto nel 1965 in seguito a un secon­do aborto spontaneo. Rimarrà in un cassetto per quasi dieci anni. L’edi­zione definitiva è ripulita dagli ac­cenni troppo vistosi alla propria esperienza personale.
Ma il lettore di Oriana non può non pensare ad alcuni brani che as­sumono una luce diversa. L’imma­gine maledetta era ancora lì a per­seguitarla: «Un figlio non è un dente cariato. Non lo si può estir­pare come un dente e buttarlo nella pattumiera, tra il cotone sporco e le garze».Il drastico giudizio sull’amo­re perde ogni accento retorico: «Nul­la minaccia la tua libertà quanto il misterioso trasporto che una creatu­ra prova verso un’altra creatura, ad esempio un uomo verso una donna, o una donna verso un uomo.
Non vi sono né cinghie né catene né sbarre che costringano a una schiavitù più cieca, a un oblio altret­tanto cieco dei tuoi diritti, della tua dignità, della tua libertà. Guai se ti regali a qualcuno in nome di quel trasporto».

Sapeva di cosa stesse parlando.

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