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La tragica mutazione genetica dei bamboccioniil commento 2

diLa notizia che un uomo su quattro a quarant'anni riesce a vivere, oggi, grazie all'aiuto della famiglia è drammatica, ma per capire fino a che punto lo è bisogna integrarla con altri due segnali. Il primo è che questo «aiutino» della famiglia sarà sempre più scarso. Non solo perché le famiglie impoveriscono a loro volta ma soprattutto perché la famiglia come istituzione ha subito in questi decenni un attacco culturale senza precedenti. Andate a chiedere a una maestra elementare quale percentuale dei suoi alunni proviene da una famiglia tradizionale che si mantiene unita. Scoprirete che la famiglia tradizionale costituisce ormai un'eccezione. Se pensiamo che la famiglia, con i suoi legami saldi e con la sua tendenza al risparmio per i giorni brutti, ha potuto attutire, da noi, l'impatto brutale della crisi, possiamo misurare la portata devastante di un'ideologia che, agendo sui corpi sociali fino a frantumarli in tante unità individuali senza difese, ha fatto dei giovani carne da macello per la crisi. E poi ci si stupisce se a quarant'anni per vivere ci vuole ancora la paghetta. Almeno non parliamo di bamboccioni, per piacere: non parliamone mai più. Questa è la tragedia di un'intera civiltà. I dati offerti dalla Coldiretti ci indirizzano in questa direzione anche grazie a una sottolineatura non da poco: tra i giovani costretti a vivere ancora in famiglia, quelli che vivono in città mal sopportano (a ragione) questa situazione, mentre molti coetanei impegnati nell'agricoltura ne fanno una scelta di vita. La ragione non sta solo nei diversi stili di vita, ma nel fatto che la società agricola, soprattutto in certe zone dell'Italia, si mantiene forte grazie al forte tessuto familiare, senza il quale forse non esisterebbe nemmeno (e mi riferisco anche alle aziende più all'avanguardia). Viceversa, dove questa struttura non ha retto, come in certe zone della Pianura Padana, la stessa agricoltura è in forte declino, con conseguenze di disagio sociale a dir poco enormi. Vorrei aggiungere un'altra osservazione. È significativo che le agenzie parlino di «giovani» a proposito dei quarantenni. E lo fanno in un'epoca in cui un uomo di cinquant'anni che perde il lavoro può essere quasi certo che non ne troverà un altro. In buona sostanza: si è giovani fino a quarant'anni, ma a cinquanta si è già troppo vecchi. Precari fino a quaranta, disoccupati dieci anni dopo. È questa finestra di dieci anni, dieci miseri anni, che non sono nemmeno i migliori anni della nostra vita, quella in cui un italiano (ma i dati sono ormai preoccupanti anche per gli altri paesi) può giocare tutte le sue carte? La sfida è non solo economica ma umana e culturale, e va affrontata con coraggio, realismo e fiducia. Altrimenti rischiamo di finire come quel cervo, che specchiandosi in una fonte magnificava le proprie corna e disprezzava le proprie gambe.

Tutti sappiamo come finì: con le corna s'impigliò tra i rami e fu raggiunto dai cani, che lo uccisero, mentre le gambe avrebbero potuto salvarlo, se solo non fosse stato troppo a lungo a rimirarsi nella fonte.

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