L'innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie al 26 per cento? «È un adeguamento alla media europea e non ci risulta che l'attrattività finanziaria dell'Italia possa venire intaccata». Parola del ministro Pier Carlo Padoan che ieri a Radio anch'io ha decantato le magnifiche sorti e progressive in tema di fiscalità del governo di Matteo Renzi. Più che dell'Italia il titolare del dicastero di via XX Settembre ha parlato di un luogo dell'immaginario collettivo. «Siamo in una situazione in cui gli investitori guardano con estremo interesse all'Italia», ha detto riferendosi ai esempio ai titoli di Stato (ieri nuovi minimo per lo spread tra Btp e Bund), alle dismissioni dei beni pubblici (sempre in cantiere) e, in generale, agli investimenti.
Ma le cose stanno veramente così? O, piuttosto, quella che viene raccontata è una storia che differisce molto dalla realtà? Partiamo proprio dall'adeguamento dell'aliquota sulle rendite finanziarie (Btp esclusi, sui bond governativi il prelievo resterà al 12,5%) dal 20 al 26 per cento. L'obiettivo del governo è rastrellare almeno 2,5 miliardi (2,9 miliardi le stime iniziali) per finanziare in parte il taglio dell'Irap sulle imprese. Come ha detto l'ottimo Padoan si tratta di un «adeguamento alla media europea». E, in effetti, a ben guardare i principali Paesi del Continente il margine per aumentare il «drenaggio» ci sarebbe. In Germania la tassazione è al 26,375%, in Francia si arriva addirittura al 34,5%, mentre in Gran Bretagna e in Spagna il prelievo varia in funzione del reddito e può arrivare a un massimo rispettivamente del 28 e del 27 per cento.
Inutile baloccarsi sul valore costituzionale del risparmio, sul fatto che si tratta di somme che «sopravvivono» ad altre forme di tassazione, eccetera eccetera. Proviamo a ribaltare la prospettiva: chi investe in azioni, titoli e quant'altro è un ricco renditiere che va penalizzato, mentre è più importante la salvaguardia del lavoro e dei suoi frutti, altra architrave costituzionale. Ebbene, come ha reso noto l'Ocse, circa due settimane fa l'Italia è uno dei Paesi più ostili al lavoro. Non solo perché non ci sia ma perché il cuneo fiscale sui dipendenti con due figli è tra i più elevati nel G20.
Lasciamo perdere isole felici come la Svizzera (9,5%), gli Stati Uniti (20,3%) e il Canada (18,7%), bisogna chiedersi perché un nucleo familiare con due bambini a carico in Italia nel 2013 si sia visto «rastrellare» il 38,2% dell'imponibile contro il 33,8% della Germania, il 34,8% della Spagna e il 27% della Gran Bretagna. Aliquote totali che, secondo il Centro studi di Confindustria, salgono al 42,3% per il nostro Paese che in questa lettura sopravanza pure la Francia (38,6% a fronte del 41,6% stimato dall'Ocse). Probabilmente per il ministro Padoan «l'adeguamento alla media europea» è un concetto variabile un po' come le targhe alterne. D'altronde, i tentennamenti sull'estensione del bonus da 80 euro anche a incapienti e lavoratori autonomi o sul rinnovo della cassa integrazione in deroga chiariscono l'impotenza dinanzi al Leviatano dei conti pubblici.
Senza contare che nella classifica della Banca mondiale per aliquota totale sui redditi delle imprese l'Italia ha un primato assoluto: il 65,8% contro il 64,7% della Francia e il 56,8% della Spagna. La Germania è al 49% e la Gran Bretagna al 34. Anche in questo caso i modelli da seguire devono essere ben altri se il promesso taglio dell'Irap verrà effettuato a rate.
E così ai risparmiatori (ma anche alle imprese) toccherà sorbirsi da luglio l'aumento delle aliquote al 26%.
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