Vive a La Mesa, sobborgo di San Diego, California, ai confini col Messico. Ogni anno in aprile lascia la costa del Pacifico e si trasferisce fino ai primi di luglio sul mar Ligure. E ogni anno ripete la stessa domanda all'amico del cuore che ritrova in vacanza: «Gianni, ma perché quando torno al mio Paese tutti mi trattano così male?». In passato Marcello Mastrocola, dal 1979 cittadino statunitense con passaporto italiano, poteva pensare che dipendesse dai 18 metri del Piacere, il suo yacht uscito dai cantieri Azimut e tenuto all'àncora a Marina di Varazze, un «indicatore di ricchezza» per l'Agenzia delle entrate, una spina nel fianco per il proprietario: «L'ho battezzato così perché una barca può darti piacere solo per 48 ore: quando la compri, il giorno più bello, e quando la vendi, il giorno più felice».
Ma adesso che l'italoamericano ha 77 anni, e non se la sente più di navigare nel Mediterraneo, il panfilo l'ha appunto venduto e gli resta solo un bell'appartamento affacciato sul porto savonese. E allora come mai nessuno per strada batte le mani al comandante pilota Mastrocola, che via radio da Katmandu diede al mondo l'annuncio della conquista italiana dell'Everest nel 1973? Che per anni ha decifrato le comunicazioni in codice dei russi standosene rintanato in un bunker segreto della Nato nel ventre di una montagna in Veneto? Che per anni ha monitorato le radiazioni nucleari nella stazione meteorologica dell'Aeronautica militare sul ghiacciaio perenne del Plateau Rosa? Che per anni è stato consulente del Reuben H. Fleet science center dove spiegava ai ragazzi i misteri del cosmo? Che per anni ha formato generazioni di piloti di Boeing e Dc-10 in servizio sulle rotte di American airlines, Delta, Alitalia, Mexicana, fino a diventare addestratore di aspiranti top gun sulla leggendaria portaerei Midway? Misteri dell'invidia sociale, tipica patologia tricolore.
Per tutta la vita Mastrocola ha fatto il cowboy dello spazio. Quando metteva finalmente i piedi a terra, si rilassava a modo suo: attraversava con i carri, come i pionieri dell'Ottocento, la Death Valley, dove la morte può arrivare di notte sulle ali di un'improvvisa tempesta di sabbia; oppure prelevava una mandria di mucche, «almeno un migliaio», nel nord della California e le portava fino a Reno, nel Nevada, «una transumanza dall'inverno all'estate sui sentieri del Far West, una settimana infernale a cavallo, lavorando di speroni e di lazo, ma se vuoi vivere sotto le stelle...», ed è sempre lì che ritorna, all'etere. Gli amici della carovana lo conoscevano solo come Curly, cioè riccioluto, per via dei capelli ondulati che lo rendevano simile a Billy Crystal, protagonista del film City slickers, icasticamente tradotto in italiano Scappo dalla città. La vita, l'amore e le vacche. E se non erano i bovini, erano i cristiani: per 15 anni ranger, sempre a cavallo, nel Cuyamaca Rancho State Park, 105 chilometri quadrati selvaggi dove i clandestini sconfinano dal vicino Messico, e per 5 anni volontario dell'American red cross al servizio degli anziani handicappati. Un benemerito.
Mastrocola, primo di sei fratelli, originario di San Giuseppe Vesuviano, scoprì l'esistenza degli Stati Uniti solo all'età di 8 anni, nonostante il nonno Domenico fosse stato fornaio a Brooklyn dal 1902 al 1914. «Dopo lo sbarco degli Alleati a Salerno, io, mia madre e una mia sorellina ci eravamo rifugiati in una cava. Mio padre era al fronte in Jugoslavia. Quattro tedeschi ci scoprirono e stavano per fucilarci. Con noi c'era una coppia di compaesani. Il marito, disabile, cominciò a recitare il rosario alla Madonna di Pompei. Sopraggiunse un ufficiale nazista, che prese a male parole i sottoposti e li trascinò via. Così fummo salvi. Tornati in paese, la nostra casa non c'era più: un mucchio di sassi e di tizzoni fumanti. Dormivamo all'aperto, in giardino. Io frugavo nella cenere per cercare i bottoni di madreperla. Finché non arrivarono le jeep americane. Lustravo le scarpe ai soldati, che in cambio mi davano le gomme da masticare, la carne in scatola, la Campbell's soup di piselli, le uova in polvere da friggere. Mi pareva di sognare. Diventai filoamericano all'istante. Un giorno la zia Maria mi presentò un uomo emaciato, con una barba lunghissima, dicendomi: Guarda tuo papà. Io scoppiai in lacrime. Non riuscivo a riconoscerlo». Piange ancora.
La vocazione per il cielo arrivò mentre lo scugnizzo frequentava la seconda elementare. «Un caccia americano, un P-51 Mustang sul quale molti anni dopo avrei volato anch'io, precipitò a 3 chilometri dalla scuola. Accorremmo tutti. Vidi la salma annerita del pilota e due banconote da un dollaro bruciacchiate. Ricordo che promisi ad alta voce: farò il pilota anch'io. Non so perché lo dissi. Forse per una sfida alla morte. O magari la vita di quel poveretto è rifluita nella mia, chissà. Dovrei farmi vedere da uno psichiatra».
È andata come voleva.
«A 18 anni ero già allievo della Scuola specialisti dell'Aeronautica nella Reggia di Caserta. Poi per un quarto di secolo navigatore, meteorologo ed esperto di comunicazioni a terra e a bordo. Durante la guerra fredda, quando si temeva che i sovietici potessero invadere l'Italia da Est, intercettavo le comunicazioni dell'Urss in un sito crypto della Nato a prova di bomba atomica nel Padovano. Quindi comandante del centro di assistenza al volo di Bric della Croce, a Torino. Infine il brevetto di pilota a 40 anni. Ho all'attivo oltre 12.000 ore di volo. È come se avessi trascorso 500 interi giorni alla cloche di un aereo».
Una vita ad alta quota.
«Stetti tre anni sul ghiacciaio del Bernina, ai piedi del Cervino, a tener d'occhio gli esperimenti atomici compiuti dalla Francia. Rimasi da solo con una bufera di neve durata per 15 giorni. Pensi, un napoletano a 30 gradi sottozero. La funivia era semidistrutta. Rimediarono con un tavolaccio di legno circondato da una rete per pollai. Scesi dal Plateau Rosa aggrappato a quella. Se non mi fossi scolato mezza bottiglia di cognac Martell durante la traversata del ghiacciaio, non sarei qui a raccontarlo».
Un'esperienza che le valse il reclutamento per la spedizione sull'Everest nel 1973.
«L'alpinista Guido Monzino cercava volontari. Presentai domanda. Passai le visite mediche all'Istituto di medicina spaziale a Roma. L'ufficiale selezionatore all'ultimo colloquio fu molto esplicito: È sicuro di voler partire? Potrebbe morire lassù. Ci pensi fino a domattina. Passai la notte in bianco. Partimmo per il Nepal ai primi di gennaio, tornammo il 25 maggio, dopo aver espugnato la vetta due volte. Il 5 maggio mi giunse una chiamata via radio da Teheran. Un uomo dall'accento arabo mi gracchiava domande nella mia lingua: A che ora è avvenuta la conquista dell'Everest?. Poi un lungo silenzio. Chi faceva parte della cordata?. Erano comunicazioni unidirezionali, io rispondevo al nulla. In seguito scoprii che il ponte radio via Iran era stato organizzato dalla Rai per il telegiornale e che la mia voce aveva dato agli italiani la notizia della storica impresa».
Non c'erano giornalisti sul posto?
«Solo Egisto Corradi, inviato speciale del Corriere della Sera. Ero io a spedire per telex i suoi articoli alla redazione di Milano. Il giorno dopo si lamentava perché era saltata qualche virgola: Signor Mastrocola, mi raccomando la punteggiatura!. Aveva ragione. Ma al campo base ero da solo a tenere le comunicazioni col resto del mondo».
La diretta Rai non fu l'unica sorpresa che ebbe a Katmandu.
«Vero. Per me fu assai più importante l'incontro fortuito con Emy, una giovane ereditiera olandese, infermiera professionale, figlia di un banchiere che era anche azionista della birreria Grolsch. Era partita con quattro amiche da Enschede in camper. Avevano attraversato da sole il Sahara e tutto il continente nero, fino al Sudafrica, fermandosi nei villaggi a curare i bambini. Poi in nave erano salpate per l'India e da lì col pullmino avevano raggiunto il Nepal. Assistevano i piccoli orfani. Rimasi colpito dalla mitezza di Emy. Se aveva un pezzo di pane, lo dava agli altri. Una ragazza eccezionale, di una bontà esemplare. Posso ben testimoniarlo essendo diventata mia moglie e la madre di mio figlio Marco, ingegnere aeronautico».
Perché si trasferì negli Stati Uniti?
«Ebbi un'offerta di lavoro allettante dalla Enterprise, un'azienda texana di radar. Per diventare pilota di aerei di linea, ho rischiato di fare la fine del top gun carbonizzato che vidi da bambino».
Come?
«Durante un volo nel Grand Canyon si piantò il motore di un Arrow 4. Avevo quattro persone a bordo. Non è che dalla torre di controllo più vicina in simili frangenti ti venga un grande aiuto. Solo la domanda di prammatica: What are your intentions?, quali sono le tue intenzioni? Per fortuna ero alla fine del budello roccioso e riuscii a planare nel deserto, dove ci recuperarono incolumi».
Un vero asso dell'aviazione.
«Non basta la bravura: ci vuole anche tanto così di fortuna». (Misura tre centimetri fra pollice e indice). «Mi considero fortunato soprattutto per aver evitato di addestrare due dei dirottatori islamici degli attentati dell'11 settembre 2001. A San Diego la mia scuola di volo, Bald Eagle, era attaccata al Sorbi flying club dove intendevano iscriversi Nawaf Al Hazmi e Khalid Al Mihdhar, complici di Mohamed Atta. Il proprietario s'insospettì perché gli chiesero d'essere addestrati al decollo ma non all'atterraggio».
Oggi lei è docente sulla Midway.
«Sì, insegno ai cadetti che dopo le scuole superiori vogliono arruolarsi in Marina per diventare piloti. È stata per anni la più grande portaerei del mondo, così enorme da non poter entrare nel Canale di Panama. Fu impiegata in Corea, in Vietnam, e nella prima guerra del Golfo. Dal 2002 è un'accademia-museo ormeggiata nella baia di San Diego».
Un monumento nazionale.
«Portava 130 aerei e aveva 4.500 uomini d'equipaggio. Le sei mense servivano più di 13.000 pasti al giorno. I caccia vi atterravano alla velocità di circa 230 chilometri orari avendo a disposizione appena 182 metri, contro i 10.000 delle piste normali».
Non ho mai capito come fanno.
«Semplice: sulla pista vi sono tre cavi. Il pilota ne aggancia uno nella discesa, di preferenza il secondo, che rallenta la corsa. Bastano tre secondi perché l'aereo si fermi in soli 107 metri».
Che si dice di noi negli Stati Uniti?
«Gli americani amano l'Italia più di qualsiasi altro Paese al mondo. Infatti da turista qui io vivo benone. Ma da cittadino italiano divento matto. Non funziona nulla, ogni cosa che devi fare è una tragedia. Vado all'Ulss per la tessera sanitaria: È già passato a ritirarla. Guardi che si sbaglia, insisto. Giro di telefonate fra Varazze e Savona. Dopo due ore: In effetti non è ancora pronta. Ritorni. Mi reco in municipio per la carta d'identità. Infilo 10 euro nella macchinetta delle fototessere. Non funziona. Telefono al numero d'emergenza per segnalare il guasto. Risponde una segreteria: Lasciate un messaggio, vi richiameremo. Nessuno mi ha mai cercato, più rivisti i 10 euro. Tutto così. Uno strazio».
Invece nella sua patria adottiva?
«Entri nell'ufficio che rilascia le patenti. Ti chiedono: Sa guidare?. Sì. Compili un foglio, rispondi a una ventina di quiz, ti scattano una foto, ti fanno leggere da lontano alcune lettere dell'alfabeto, ti portano a fare un giretto in auto mettendoti al volante, paghi 10 dollari e te ne vai mezz'ora dopo con la patente, senza bisogno di visite mediche».
Consiglierebbe a un giovane di emigrare negli Usa?
«Sì. A una condizione: che abbia voglia di lavorare 10 ore al giorno, sabato compreso, quando le banche sono aperte anche di pomeriggio. Una sola settimana di ferie l'anno».
In quali settori e più facile trovare un posto?
«Informatica ed elettronica. Una mia allieva della scuola di volo, originaria di Bologna, ha una figlia ventiquattrenne, neolaureata in ingegneria, che è stata subito assunta alla Texaco e guadagna 80.000 dollari l'anno. Al suo primo impiego».
Che ricetta adotterebbe per far uscire l'Italia dalle secche?
«Cancellare tutte le leggi esistenti e copiarle in blocco da una nazione, tipo gli Usa, che abbia saputo scriverle meglio».
Però non è stato bello scoprire che spiavate i diplomatici stranieri.
«Dopo gli attacchi alle Torri gemelle siamo costretti a vivere così.
(662. Continua)
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