«Ci possono essere anche altre soluzioni per ridurre lo spread, che possono anche non passare dagli eurobond»: en passant, come se si trattasse di un dettaglio, il segretario Pd Pier Luigi Bersani ieri ha preso posizione sull’imminente vertice Ue. L’importante, ha spiegato, è che «dal vertice esca qualcosa di concreto, sennò ci saranno danni seri per tutti, anche per la Germania». Non si tratta di una piccola novità: ancora il mese scorso il leader Pd aveva definito «negativa» la posizione della cancelliera tedesca Merkel sugli eurobond: «Serve uno strumento per mutualizzare il debito, altrimenti difficilmente possiamo affrontare il futuro». E aveva aggiunto che «la posizione della Merkel non è quella dell’Spd e mi auguro che dal governo italiano arrivi una parola forte perché se continuiamo così sono guai». Può darsi che la parola di Monti sia stata forte (qualcuno ha azzardato una minaccia di dimissioni), ma i risultati sembrano scarsi: solo un miracolo potrebbe convincere la Germania a mutare linea sulla crisi e sulla gestione del debito sovrano dei Paesi dell’Eurozona.
La linea invece l’ha cambiata Bersani, derubricando gli eurobond a una delle possibili soluzioni, senza peraltro suggerire le altre. Come mai questo mutamento di fronte? La chiave della svolta bersaniana va ricercata nella politica italiana assai più che in quella europea. È per difendere Monti che il segretario Pd, pressato dal Colle e dal suo nuovo alleato Casini, si spinge, se non a difendere, certo a giustificare la Merkel. Il fallimento del prossimo vertice europeo potrebbe innescare a Roma una deriva senza ritorno verso le elezioni anticipate. Per motivi non sempre convergenti, il fronte dei delusi del governo tecnico s’ingrossa ogni giorno di più, sia a destra sia a sinistra, e dalla prossima settimana basterà una scintilla per incendiare l’intera prateria. Bersani lo sa, e siccome non può cambiare la testa della Merkel, prova a cambiare la sua.
Del resto, l’uso strumentale della politica estera è una costante della polemica interna, e il tifo per questo o quel capo di Stato o di governo straniero spesso prescinde dal merito e qualche volta dall’opportunità. La simpatia di una fetta di sinistra per la cancelliera tedesca ha una data di nascita: 23 ottobre 2011. Quel giorno, al termine di una riunione del Consiglio europeo (presente Berlusconi), Sarkozy e la Merkel tennero a Bruxelles una conferenza congiunta sui risultati e sulle prospettive della crisi. Alla domanda di una giornalista francese sulle garanzie date dall’Italia e dal suo governo, presidente e cancelliera reagirono con un sorriso fra lo strafottente e il derisorio.
«Tre anni di immobilismo del governo - commentò l’indomani Bersani - tre anni di assenza di dignità nella conduzione della cosa pubblica ci hanno messo nel punto più esposto. Siamo ritenuti un rischio per l’Europa e per il mondo. Fino al punto di aver perso il buon nome, la stima e il rispetto e fino al punto di vederci derisi in modo inaccettabile. Le scuse servono a poco. Sia chiaro che gli italiani non sono Berlusconi e bisogna rispettarli e siamo noi che dobbiamo farci rispettare. Molte di quelle cose che oggi ci vengono chieste - concluse Bersani - avremmo dovuto farle noi da soli e già da qualche anno». Insomma, tedeschi e francesi non hanno tutti i torti e prenderci in giro, visto che al governo c’è Berlusconi. I cui rapporti con la cancelliera non sono mai stati particolarmente affettuosi.
È dello scorso settembre l’incidente delle intercettazioni predisposte dalla Procura di Bari e finite nelle redazioni. Alla Festa Pd, a Bologna, così si espresse Bersani: «Sui giornali tedeschi sono uscite certe dichiarazioni che Berlusconi avrebbe fatto sulla Merkel. Si aspettano una radicale smentita che non è ancora avvenuta». Il problema, per Bersani, è che «viene fuori un’immagine di noi italiani come sciatti, pressapochisti, disinibiti e poco seri», e «questo porta danni di dimensioni cosmiche».
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