Intervista a Nicholas Negroponte "L'ultimo evangelista di Internet"

E' uno dei più illustri figli del Mit di Boston. Ha partecipato alla nascita di internet e il suo libro Being digital è un best seller mondiale. Suo il progetto per un computer da 100 dollari

Intervista a Nicholas Negroponte 
"L'ultimo evangelista di Internet"

Roma - Nicholas Negroponte è un sognatore. Forse perché ha visto il futuro quando ancora non c’era. Quando il vecchio secolo non era ancora trapassato pensò di cambiare la misura del tempo. La chiamò beat. Il tempo di internet, un riferimento unico in ogni angolo del pianeta, senza più vincoli di fusi orari. Divise la giornata in mille beat, ognuno dei quali dura un minuto e 26,4 secondi. L’uomo nuovo del web avrebbe detto: «Ci sentiamo stasera ai 700 beat». Ma si sa, il mondo è abitudinario e ognuno continuò a consultare il suo orologio. Negroponte continuò a sognare.

Era lì quando tutto è cominciato. Quando l’Ibm mise insieme chip e plastica, hardware e software, e disse: questo è il personal computer. E Pc fu. Era lì quando il Dipartimento della Difesa americana pensò che in caso di attacco nucleare serviva un mezzo di comunicazione per i superstiti e per governare il dopo. E internet fu. Negroponte fu l’unico a finanziare il progetto di una rivista a cui nessuno credeva: Wired. E ha raccontato la nuova era. Negroponte è tuttora convinto che con un computer di 100 dollari si può esportare la filosofia del 2.0 nei villaggi più sperduti dell’Africa o dell’Asia. È da lì, sostiene, che arriveranno le nuove idee. Negroponte è qui, a Roma, come ambasciatore di un premio Nobel per la pace un po’ particolare.

È un’idea di Wired Italia ed ha il suo fascino. Il Nobel per Internet. La rete che ha rivoluzionato il millennio non è solo tecnologia. È un’agorà, dove i popoli si incontrano, intrecciano le idee, i destini, le parole. Dietro ogni avatar, al di là del virtuale, ci sono persone, vere, con nomi e cognomi, con una storia. Chris Anderson, direttore di Wired Usa, scrive: «Non c’è partita fra un account su Twitter e un fucile AK-47, ma a lungo termine la tastiera è più potente della spada».

Lei ci crede davvero?
«A cosa?».

Alla tastiera e alla spada?

«Ci credo da sempre. Lei no?».

La rete è un mezzo. Ci camminano i santi e i terroristi. «Vero. Ma fa viaggiare le informazioni, abbatte i muri, crea buchi nella censura, molti dei valori tradizionali dello Stato-Nazione lasceranno il passo a quelli di comunità elettroniche, grandi o piccole che siano. Guardando fuori dalla finestra potrete vedere qualcosa distante da voi cinquemila miglia e sei fusi orari. Un reportage sulla Patagonia potrà darvi la sensazione di andarci di persona. La rete è la piazza, il vecchio mondo è una mappa dove i confini sono cicatrici. Nel cyberspazio non ci sono frontiere. I bit non si fermano alle dogane».

Google e la Cina sono in guerra.
«E l’informazione è un’arma. Google ha deciso di togliere i filtri in Cina dopo che ha subito gli attacchi degli hacker».

Hacker che lavorano per il governo cinese?
«Io non lo so. Leggo i giornali e osservo la tempistica. Google subisce l’attacco degli hacker e subito dopo toglie i filtri in Cina. Non è un caso». Molti pensano che Google quei filtri non avrebbe mai dovuto metterli. Non si scende a patti sulla libertà. «Qualche volta bisogna accettare i compromessi. Meglio una mezza rete che nulla».

Il cinese è la lingua più parlata del mondo. Ha sorpassato l’inglese. Questo cambia qualcosa?
«No. La prima lingua non è importante. È la seconda quella che conta. È quella con cui si comunica con il resto del mondo. La seconda lingua universale resta l’inglese. E da questo punto di vista l’arabo è molto più parlato del cinese. È la differenza tra lingue di scambio e lingue confinate all’interno di una muraglia».

I giornali di carta non sono ancora morti.
«Moriranno».

E i giornalisti?
«Come professione?».

Si.
«Saranno ancora qui. Forse più utili».

Qualcuno dice che ormai le masse sono entrate nell’informazione. In un mondo di blogger che bisogno c’è di giornalisti?
«In teoria blogger e giornalisti sono sullo stesso piano. Ma non è così. La differenza è la qualità. Le informazioni sono infinite, quelle scritte dai giornalisti sono più affidabili. La firma diventa un certificato di garanzia. Mi fido di quella persona perché conosco la sua buona fama. Non si preoccupi. Non siete ancora una specie in via d’estinzione».

Ha visto «Avatar»?
«Il film di Cameron? Mi dispiace, ancora no».

Siamo già nel virtuale?
«Ci stiamo arrivando».

Il futuro assomiglia a un videogame. L’arte, i romanzi, il cinema, la moda seguono sempre più l’estetica dei mondi virtuali. C’è gente che va in giro vestita come se fosse su «Second Life» o qualcosa di simile. È un’invasione barbarica?
«È una nuova civiltà. C'è proprio una divisione generazionale assoluta tra chi è digitale e chi non lo è. In effetti, quelli che io chiamo i “senzatetto digitali” sono molto intelligenti, molto bravi, di solito sono persone benestanti di 40 anni o più, ma hanno un problema: sono giunti su questo pianeta troppo presto. Queste persone imparano dai loro figli».

Non ha paura del lato oscuro del web? E se il futuro fosse quello cyberpunk dei romanzi di Gibson?
«Gibson è un grande scrittore di fantascienza. Ma il cyberspazio non è quello visto da lui. Il lato oscuro c’è, ma la luce è più forte».

Il premio Nobel si dà a persone in carne e ossa. Chi lo riceverà nel nome di Internet?
«Gli “evangelisti“ della rete. Larry Roberts e Vint Cerf disegnarono Arpanet.

Tim Berners Lee ha inventato il nome World Wide Web e la prima versione del linguaggio Html. Il quarto è morto 20 anni fa. Era il mio maestro, J.C.R. Licklider, padre dell’intelligenza artificiale».

Ma che ha fatto Internet per la pace?
«E Obama?».

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