Prolifico e spiazzante. Pat Metheny, re della moderna chitarra jazz, non si siede certo sugli allori (19 Grammy, di cui sette consecutivi con il Pat Metheny Group) raccolti nella sua lunga carriera ma ogni anno s’inventa un progetto completamente diverso dai precedenti. L’avevamo lasciato ai complessi intrecci meccanico-sonori di Orchestrion e lo ritroviamo oggi con Unity Band, il disco che - a 30 anni di distanza da 80-81 - lo vede di nuovo affiancato da un sax tenore. Allora erano Dewey Redman e Michael Brecker, oggi è il prezioso Chris Potter (con Antonio Sanchez alla batteria e Ben Williams al contrabbasso) a reinventare il jazz tradizionale per rilanciarlo nel futuro.
Ci sono voluti tanti anni per riavere un sax al suo fianco.
«Nella mia carriera ho sempre esplorato le alternative al suono tradizionale del jazz, con l’orchestra, con il trio chitarra-basso-batteria e così via. Ora mi sono accorto che nella mia storia questo percorso artistico era sottorappresentato ed era il momento di evidenziarlo».
Potter è un altro grande esploratore del jazz.
«Da quando suonammo insieme nell’album di Antonio Sanchez ho capito che era il migliore e che il nostro fraseggio si prestava a più ampie collaborazioni. Nell’album ho usato la chitarra come non facevo da tempo, per accompagnare il sax, come un pianista. In futuro spero faremo altre cose, magari più minimaliste come quella che feci con Brad Mehldau».
Già, perché il suo stile non si è formato ascoltando soltanto i grandi della chitarra.
«Nell’incrocio tra gusto melodico e improvvisazione qui si sente l’influenza di Freddie Hubbard, immenso e sottovalutato. A livello compositivo in generale mi ha colpito molto Wayne Shorter».
Il nuovo gruppo si chiama Unity Band...
«Unity è una parola importante per me e ha un grande livello affettivo. È un bel vocabolo per uno costretto a convivere con termini che non ama come fusion o jazz rock. Poi in Missouri, dove sono nato, c’è lo Unity Village (l’omonimo brano è sul mio primo album) e da giovani, durante l’estate, sia io che mio padre che mio fratello abbiamo suonato nella Unity Band».
Quanto conta l’improvvisazione nella sua musica?
«Salvo rare eccezioni è il centro di tutto quello che faccio. Tutta la mia musica è ricerca di qualcosa che sbocci nell’improvvisazione. Poi ci sono diversi contesti in cui improvvisare: quello completamente libero del free jazz o quello con contorni ben delineati in cui si può viaggiare più o meno in profondità. Anche in questo disco credo di aver sperimentato qualcosa che nessuno ha mai sperimentato».
Ovvero?
«In Orchestrion Sketch ho creato un sistema di interazione tra la musica, gli esseri umani e un robot che ritengo particolarmente interessante».
Ogni anno lei crea molteplici progetti, tournée, collaborazioni: è una fucina di idee o un abile pianificatore?
«Ci vuole tanta organizzazione; far combaciare incisione di dischi, composizione e concerti è come far attraccare una nave da crociera, ma io mi sento un privilegiato perché ho sempre potuto scegliere come e quando fare le cose».
Ha collaborato con David Bowie, Pino Daniele, Steve Reich. La interessa ancora il mondo del rock o di altre musiche, ha qualche idea?
«Non mi interessa il genere ma il personaggio. Quando c’è stato qualcosa di autentico nel progetto non mi sono mai tirato indietro, ma ora ho tempo solo per il jazz e per i miei tre figli. Quindi niente progetti rock o cose del genere».
Lei è uno dei
«Sono contento che la mia musica sia così popolare ma non mi vanto dei premi. Non so neppure dove siano finiti. La mia casa è piena soltanto di chitarre e strumenti musicali».
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