Milano - In via Solferino l’hanno pomposamente ribattezzato «Il colloquio». E come tale l’hanno sontuosamente presentato ai lettori del Corriere della Sera, il primo quotidiano italiano, domenica 5 giugno. La realtà è più modesta, anzi taroccata: si trattava di un copia e incolla. Sapiente, di taglio sartoriale, ma pur sempre copia e incolla. Frasi dette, anzi scritte dal cardinal Dionigi Tettamanzi in diversi momenti e assemblate lasciando credere quel che non è: un incontro a tu per tu fra l’arcivescovo di Milano e il vicedirettore del Corriere Giangiacomo Schiavi, autore del pezzo che occhieggiava in prima pagina. Ma Tettamanzi quella conversazione con Schiavi non l’ha mai avuta. L’intervista è stata inventata.
C’è stato invece l’effetto. Perché il Tettamanzipensiero, suggestivamente piluccato, va misurato all’incrocio storico in cui il Corriere l’ha collocato: Tettamanzi a fine mandato, come si ricordava nella titolazione, Pisapia all’inizio della sua avventura di sindaco. Il vento del cambiamento, portato dalla clamorosa vittoria del centrosinistra, faceva un po’ da sottofondo della chiacchierata virtuale costruita a tavolino. Scrive Schiavi nell’incipit della sua predica domenicale: «Sembra quasi un obbligo dire che senza il cardinale Dionigi Tettamanzi non ci sarebbe stata la svolta di Milano». L’incrocio dunque non è, non sarebbe casuale perché sarebbe Tettamanzi il motore di quel che è accaduto sotto la Madonnina. Sarebbero anche le prediche del cardinale, il cardinale che sferzava i potenti e ricordava diritti degli ultimi, a scuotere il gregge cristiano, a risvegliarlo dal torpore e dall’apatia e a spingerlo verso Pisapia.
Afferma Tettamanzi, il Tettamanzi ripescato da Schiavi: «Alla retorica dei discorsi io preferisco chi si mette in gioco. È finito il tempo degli slogan. È l’ora di risvegliare le coscienze per tornare a dire: e io che cosa posso fare?». Intendiamoci: le parole di Tettamanzi sono di Tettamanzi e non possono essere smentite. Il problema è metterle all’incrocio, quell’incrocio con la città che cambia, nel momento più opportuno. Afferma Schiavi: «“Vescovo di Kabul”, l’ha attaccato la Lega, “Tettamanzi cattocomunista”, ha scritto il ministro Calderoli. Quasi una medaglia da ostentare oggi nella città che ha dimostrato di non credere a Zingaropoli e alla strategia della paura». A questo punto Schiavi restituisce la parola all’arcivescovo, dissigillando di nuovo gli archivi della curia: «Una città moderna deve saper parlare di questi argomenti senza chiudere gli occhi. La moschea non è il primo problema di Milano, ma chi prega non deve farlo in una strada. È miope e irresponsabile l’atteggiamento di chi non vuole prendere coscienza di certe situazioni presenti nella nostra città. Spesso ci si accanisce contro i nomadi per rendere ostile il terreno in cui vivono, impedendo l’integrazione di chi vuole intraprendere percorsi di legalità e cittadinanza, con il rischio di esporli di più alla delinquenza».
Insomma, il senso del ragionamento svolto in redazione è chiarissimo: Tettamanzi ha guidato la città rimanendo fedele al suo profilo fatto di integrazione, apertura alle minoranze, capacità di dialogo; solo che la destra non l’ha ascoltato e la città è andata dall’altra parte. Dove non si rimestano paure, fobie e isterie, dove i sospetti non prendono la forma rabbiosa e schiumante della discriminazione o della disintegrazione sociale ma si ricompongono in una sorta di nuovo presepe, multiculturale e inclusivo per definizione.
Ogni lettura, ogni interpretazione, ogni suggestione è lecita. Bastava e basta dirlo, senza giocare con la buona fede dei lettori e senza manipolare sottilmente la catechesi del cardinale. E infatti Schiavi lo dice, ma non sulle pagine della nave ammiraglia dell’informazione italiana.
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