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Intrigo alle Cinque Terre: carte false e amanti

Dall’inchiesta che ha portato in cella il presidente pd del Parco uno spaccato del Belpaese tra seggi scippati, tradimenti e "corvi". Bonanini non ottiene il seggio in Regione e si sfoga contro Burlando: "Mi hanno fregato". La segretaria che lo aiutava a aggirare la contabilità: "Gli dicevo sempre sì. Ero innamorata"

Intrigo alle Cinque Terre: carte false e amanti

A differenza dei travagli, dei d’avanzi e di tanti altri democratici colleghi, mancati grandi inquisitori - nati, ahiloro, in un secolo sbagliato! - noi del Giornale non amiamo veder finire la gente in cella e inorridiamo al tintinnio degli schiavettoni. Solidarizzando anzi per istinto, in base alla sacrosanta ovvietà che nessuno è colpevole fino all’ultimo grado di giudizio, con chi si ritrova nel tritacarne giudiziario. Solidarietà accresciuta se un indagato è in carcere, pur se in infermeria, con seri problemi di salute.
È storia ricorrente. È storia anche di questi giorni. Pare siano infatti ben più che serie le condizioni di Franco Bonanini, ex presidente del Parco delle Cinque Terre ed esponente del Pd ligure, rinchiuso da lunedì scorso nel centro clinico del penitenziario di Pisa come indagato numero uno, primo di una lista di 25 persone, nell’inchiesta che ha portato alla luce un oggettivo malaffare, un verminaio che ha come sfondo - ironia della legge del contrasto - proprio uno dei più bei paesaggi d’Italia. E che avrebbe arrecato allo Stato un danno da un milione di euro.
Come amano dichiarare alle telecamere gli ipocriti, e ripetere a pappagallo quelli che guardano troppa tivù, concediamo pure noi ritualmente che «la giustizia faccia il suo corso». Resta il fatto che questo pasticciaccio brutto di Riomaggiore si presti forse di più - in attesa appunto di giudizio - a essere raccontato in altro modo. Come una storia squisitamente italiana, grassamente di provincia, ormonalmente da strapaese. Vicenda in cui le ambizioni sproporzionate di uomini e donne in fondo piccoli, finiscono per intrecciarsi come in un romanzetto d’appendice con banali avidità e pulsioni ben più personali, personalissime, di quelle che si sfogano su un letto cigolante. Vicenda insomma più degna di essere scritta sulla carta grossolana del salumiere che non su quella dei mattinali o dei protocolli bollati. Non è un caso che proprio «Mani unte» - a volte anche gli inquirenti sorridono - sia il nomignolo affibbiato all’indagine.
A prescindere da quelli che saranno oppure no i reati accertati, dalle pagine di questo fumettone in salsa ligure scaturiscono un solo protagonista e tante comparse. Su tutti, per ruolo raggiunto e per mire ancora insoddisfatte, spicca proprio Bonanini, uomo di sinistra stimato anche a destra per tutto ciò che ha fatto di buono per le Cinque Terre. Pur se ben piazzato nel ruolo di vertice di un ente del genere, senza dubbio anche chic, che vanta perfino la benedizione dell’Unesco, lui non si accontenta. Divorato da una fregola di onnipotenza che gli ha procurato il nomignolo di «Faraone», il nostro sgomita e si affanna. Punta al Parlamento italiano e non ce la fa. Sogna quello europeo e il seggio a Strasburgo, che in prima battuta sembrava conquistato, gli svanisce da sotto le natiche il giorno dopo, per una stramaledetta riconta dei voti. Ripiega allora sulla Regione Liguria, ma manca anche quella per un pugno di voti a suo dire scomparsi - e se ne lagna imprudentemente con tutti, cani e porci, «Claudio mi ha fregato» - per colpa del governatore in carica Claudio Burlando, suo compagno di partito. Col che oggi, ragionando sulla sua recente caduta in disgrazia, si potrebbe anche azzardare un pensierino malizioso.
Ma non volano soltanto le invettive. Da questa storia italiana giunge anche l’eco di ansiti e gemiti. Inequivocabili. Nella gestione del parco, il Faraone avrebbe fatto materialmente carte false proprio grazie alla relazione con Francesca Truffello, 45 anni - volevate mancasse il cherchez la femme? - responsabile del protocollo al Comune di Riomaggiore, paese del quale Bonanini era sindaco-ombra. In pratica, migliaia di pagine che la fedelissima lasciava in bianco perché poi lui potesse retrodatare i mandati di spesa quando arrivavano i fondi pubblici. «Ero innamorata, gli dicevo sempre sì», si giustifica ora lei, capace di missioni impossibili come recuperare chissà mai dove, nell’inverno 2010, una marca da bollo del 2007 - più introvabile di un Gronchi rosa! -, indispensabile per coprire gli artifizi amministrativi.
Quanto ai comprimari, quelli con i quali Bonanini comunicava in modo maniacale attraverso pizzini puntualmente conclusi dall’intimazione «fallo sparire subito», spulciando la lista degli indagati emerge in verità un solo nome di spicco, quello di un alto funzionario della Regione, Enrico Bonanni, sospettato di essere la «talpa» rivelatrice delle indagini in corso. Gli altri? Autentici signori nessuno: qualche commercialista revisore di conti, due o tre geometri e amministrativi comunali, un comandante dei vigili. Nomi da timbri, da scrivanie polverose, da giustificazioni del tipo «no, è fuori stanza».

Una stanza da travet, ma che aveva una splendida vista mare.

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