"Io, cercatore dell'antico in un presente senza occhi"

Musicista e poeta, ed ex modello, Cody Franchetti pubblica la sua prima raccolta di versi e lavora a una nuova collana editoriale

"Io, cercatore dell'antico in un presente senza occhi"

Un poeta. Che ha appena pubblicato la sua prima raccolta, L'archeolatra e i tifosi del futuro (La nave di Teseo, pagg. 64, euro 15). Un "born bookish", come fu definito anni fa dall'Observer, quando ancora erano nell'aria i suoi trascorsi da modello per Zegna, ovvero uno studioso fin nell'anima: composizione, pianoforte e canto a Parigi; trasferitosi a New York da cui è tornato qualche anno fa - si laurea in musica al Mannes College, poi master in storia alla Columbia, articoli accademici di filosofia, storia, analisi musicale e letteratura. Ma anche un erede. Di plurime personalità e famiglie, tutte illustri: romano, classe 1974, è trisnipote del Barone Raimondo Franchetti, che sposò Maria Louise Rothschild; nipote di Mario Franchetti che sposò l'ereditiera tessile Anne Milliken; figlio di Giorgio Andrea, produttore vinicolo e mecenate delle arti, scomparso nel 2021 e nipote, per parte di madre - l'attrice Angelica Ippolito, ultima compagna di Gian Maria Volonté di Isabella Quarantotti, scrittrice, regista e compagna, per trent'anni, poi moglie di Eduardo De Filippo, che Cody considera suo nonno. Inevitabili i progetti, al suo ritorno in Italia qualche anno fa, legati alle culture, come "L'airone", collana che sta per varare per La nave di Teseo.

Quando ha iniziato a scrivere poesie?

"Scrissi una poesia per la mia prima fidanzata, Lola Schnabel, la figlia del pittore, a 24 anni. Un amico mi fece come regalo di compleanno - sono technologically challenged, come si dice: ho usato il primo PC nel 2008 il sito codyfranchetti.com, che c'è ancora, dove misi questa poesia. Un compositore americano la lesse e mi chiamò dicendo: "Posso musicarla?" "Faccia pure". Andò bene e mi chiese: "Ne ha un'altra?" Mentii, dissi sì, e ne scrissi altre di getto. Funzionò. Forse perché ho letto per tutta la vita".

Il compositore è Michael Linton e così sono nate le Franchetti Songs, composte da poesie autografe e traduzioni dal greco antico, latino e dall'italiano, rappresentate al Carnegie Hall nel 2013, per poi uscire in disco nel 2019.

"Avevo cinque poesie e due traduzioni: una di Campana e una di Eschilo, dieci versi dell'Agamennone meravigliosi, di cui non avevo mai trovato una traduzione fatta bene e li ho tradotti io. Troppo poco per un concerto intero alla Carnegie. Linton aveva già scritto musica su poesie di Catullo, così sul biglietto del concerto scrissero Catullo-Franchetti. Un atto per uno. Mi piacque questa associazione. Ho continuato a scrivere poesie".

Che sono piaciute.

"Mia madre era molto amica di Patrizia Cavalli, che le lesse e le definì filosofiche. Non posso dimenticare che Elsa Morante disse a Patrizia giovane: "Sei l'opposto di ciò che è allegro, mi dispiace per te: sei una poeta". Essere poeti è un peso, non una gioia epicurea".

Questa raccolta come va decifrata?

"A partire dal titolo, L'archeolatra, che è stata l'ultima poesia che ho scritto, su 21 che compongono il libro. Indaga il rapporto tra antico e futuro: io sono l'archeolatra, che ama e cerca l'antico. Non il passato e nemmeno il proprio passato, ma ciò che manca in un presente abitato da "tifosi del futuro", che non usano più gli occhi, ma vivono attraverso gli schermi, girati sempre avanti grazie a questi aggeggi, gli smartphone, che io non possiedo. Ho un telefonino che serve solo a chiamare, ci metto cinque minuti a comporre un messaggio".

L'antico guida anche le scelte della collana che cura.

"Sono in stampa i primi due volumi che usciranno a novembre, Novella pastorale di Ernst Wiechert e Dei pericoli della lingua italiana di Stendhal. La visione della collana è nata così: tornando in Italia mi sono reso conto che tante cose che io avevo letto da ragazzo non esistevano più. A volte erano sparite persino quelle case editrici, ma soprattutto non erano stati ristampati tanti testi che mi hanno accompagnato per tutta la vita. Testi meno conosciuti di grandissimi scrittori o testi molto importanti di scrittori dimenticati".

Quale è stato l'influsso più forte delle sue appartenenze familiari?

"Quello di Eduardo, di sicuro. Malgrado fosse un nonno acquisito, mi considerava suo nipote. Diceva di me: "Non sarà mai felice perché è troppo intelligente, troppo" E poi fu lui a dire per primo: "È un poeta". Avevo quasi dieci anni".

È cresciuto nella cultura e nella rappresentazione.

"In senso quasi schopenaueriano, sì. Anche dal lato paterno. Sono sempre stato un anacoreta come spirito, ma mi veniva anche detto dal lato Franchetti, quello aristocratico: "Fai come vuoi tu. Tu sei un aristocratico. Fregatene". Mi è stato detto da mio padre che essere aristocratici vuol dire che non devi curarti di nulla, che tutti ti abbracceranno, che puoi non dover pensare a dare peso alla tua posizione perché è sopra, aristos. Non perché sia meglio, ma perché non importa, non ti importa. Puoi dormire sulla panchina della stazione come al Ritz, come in un palazzo, dove tra l'altro dormo io adesso, mentre a New York avevo un appartamentino minuscolo".

Un'infanzia anche tra i grandi nomi del cinema e della letteratura.

"Ho vissuto con mia madre e Gian Maria Volonté da adolescente, andavo spesso sui set. Ho frequentato da bambino Bertolucci e Moravia. Mangiavo ciliegie, mi colò il succo su un maglione e mi misi a piangere: "Vieni da zio Alberto", era sempre lì, sul nostro divano. La notte la casa era piena di attori, scrittori. Io venivo messo a letto presto, ma poi tornavo, con uno di quei registratorini con le cassette minuscole degli anni Ottanta. Andavo dietro il divano in soggiorno e con un microfonino registravo le loro conversazioni e poi le riascoltavo. Presto sono diventato adiaforo, per tutto quel che riguarda la politica, l'ideologia, sia marxista e comunista che opposta".

Da bambino chi ammirava di più?

"Difficile sviluppare ammirazione, la finzione aveva spesso la meglio. Ai funerali di Stato per Eduardo, ero accanto a Pertini, ho tenuto tutto il tempo un garofano rosso, che avrei dovuto mettere sulla bara. Centomila persone, stendardi con scritto "A' da passà 'a nuttata". Agitavo il fiore, non vedevo l'ora di riporlo: "Te, giovine, stai fermo!", mi disse ad un certo punto Pertini. Mi ha segnato Roberto Calasso. Aveva questa scintilla nell'occhio, che hanno coloro che cercano ovunque il sapere perché sanno di poterlo afferrare dappertutto, non solo dai decani. E poi ho ammirato il mio bisnonno. Comprò la Ca' d'Oro e si mise a sistemarla, nel 1910.

Ora uno va lì e ci trova i pavimenti cosmateschi: li fece lui, rannicchiato con porfido, serpentino, pavonazzetto, giallo antico. E ha lasciato il palazzo allo Stato, per la gente. Oggi in America le case, i palazzi, si lasciano in eredità persino ai propri cani".

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