«Vado allo zoo. Tutte le bestie hanno un contegno decente, all’infuori della scimmia. Si sente che l’uomo non è lontano».
Emile Cioran
In fondo, come si dice, è sempre primavera a Los Angeles. Ma a Palm Springs lo è ancora di più. E una scimmia, tra un bagno di sole e l’altro, ha scritto le sue memorie. Una scimmia tenacemente dalla parte del sogno: solo che lei, al contrario di noi, accipicchia se il sogno lo porta bene, nonostante settantasei anni compiuti e una vita di eccessi. Ma poteva essere diversamente, quando si è passata la gioventù con le zampe sulle spalle - sensualissime - di Johnny Weissmuller, campione di nuoto e, soprattutto, indimenticato interprete cinematografico di Tarzan?
Sì, l’intuizione è giusta, stiamo parlando di Cheeta. In Inghilterra è appena uscito il suo Me, Cheeta: The Autobiography (Fourth Estate, pagg. 336, sterline 16,99) e non chiedeteci chi l’ha scritto, dal momento che persino Borges suggeriva che avendo tempo - e ultimamente Cheeta ne ha avuto molto, nel suo ospizio extralusso con campo di golf a Palm Springs - persino una scimmia poteva metter giù il Don Chisciotte, battendo a caso, all’infinito, sui tasti di una macchina per scrivere. Se questa volta è andata così, complimenti Cheeta: la metà degli autori italiani contemporanei non scrive come te. Hai verve e buona memoria, e quei Martini che hai bevuto con Humphrey Bogart e le Camel già accese che lui ti passava, non sono stati sprecati.
Se siete amanti della Hollywood golden era, leggerete questo libro con divertita e attenta curiosità, poiché ritroverete tutti i nomi che vi fanno fantasticare, dal superbo, perverso Erich von Stroheim alla calma, lussuosa Marlene Dietrich, dalle tempestose sorelle de Havilland alla candida Loretta Young. Se siete animalisti convinti, però, evitate la lettura, perché scoprirete che i vostri beniamini animali, o quantomeno gli scimpanzé, possono sorpassare di gran lunga gli uomini quanto ad alcol, tabacco, droga, Onan e orge. E al recitar sentimenti.
Tutto iniziò da qualche parte nell’Africa occidentale un imprecisato giorno del 1932, quando gli occhi di Henry Trefflich - un cacciatore spedito sul luogo dalla Metro Goldwyn Mayer - incrociarono quelli di un giovane scimpanzé, un po’ troppo sottomesso dal patriarca del clan, il quale gli tirava scapaccioni ogni giorno, e un po’ troppo coccolato dalla madre: configurazione psicologica abbastanza frequente anche fra le star di Hollywood, e che, probabilmente, per le insondabili alchimie del profondo, assicura una certa carriera nel mondo della finzione e del vizio. Non sappiamo quanto a malincuore e quanto stimolata dalle umane minacce di Trefflich, ma Cheeta abbandona quel paradiso di banane, fichi, frutti della passione e grattate di schiena da parte degli altri scimpanzé e si imbarca per l’America: vi arriva il 9 aprile del 1932, ed è questa la sua «vera» data di nascita, pure per gli storici della settima arte.
Come da copione, l’american dream inizia subito, e con esso arrivano soldi e storture morali: durante i suoi primi set, Cheeta deve apprendere molte cose, e gliele insegnano attraverso la modalità umana, troppo umana, della ricompensa-punizione. A ogni scena riuscita, una banana. Presto imparerà, come noi, a sbucciarla longitudinalmente. Presto imparerà che quelle odorose foglie arrotolate che vanno sotto il nome di cigarillo sono ottime se accese e fumate; e che, svitando il tappo di un certo contenitore di vetro che circola molto tra gli uomini, il nettare che se ne può bere è davvero inebriante, sebbene l’hangover, il malessere da doposbronza, sia sempre in agguato. Nei primi anni, durante alcune scene che gira con in mano una bottiglia, Cheeta è realmente ubriaca. Quando si dice il metodo Stanislavskij... E fuori dal set, le cose non vanno meglio: c’è chi l’ha vista, la sera, in alcuni locali alla moda, affezionarsi morbosamente alla combinazione, molto yankee, pinta di lager più shot di canadian whisky.
Il successo arriva con Johnny Weissmuller e con la serie Tarzan, di cui Cheeta interpreterà dodici lungometraggi a partire dal 1934. Stare vicino a Johnny è impossibile, come sanno le sue numerose amanti, gelosissime del suo fisico perfetto: tanto che a volte l’attore deve rimandare la ripresa di alcune scene «nella foresta» perché il suo corpo è scandalosamente tatuato dai morsi della passione femminile e, più spesso, dai segni della rabbia di qualcuna che ha scoperto un segno non suo. Il rapporto tra Cheeta e Johnny è più tranquillo (ma non si può dire lo stesso di quello tra Cheeta e Maureen O’Sullivan, che impersona Jane), e presto lo scimpanzé - il cui vero nome era comunque Jiggs - diviene l’unico interprete della famosa scimmietta, estromettendo dalla produzione le altre controfigure e persino un bambino di sei anni che all’occorrenza si travestiva e recitava la parte. Possiamo ancor oggi vedere con divertimento le parti di Cheeta nelle repliche di Tarzan e la compagna, La fuga di Tarzan, Il figlio di Tarzan, e via così, fino all’ultima fallimentare comparsata, fuori dalla serie, nel 1967, nel Favoloso dottor Dolittle, con Rex Harrison.
Poi, inevitabile, come per tutti i grandi attori che hanno la sfortuna di non morire giovani, il Sunset Boulevard, il declino. Forse per malinconia, come già gli mormorava Johnny sul set: «Quando cominciano a dire che sei immortale, inizi a preoccuparti della morte». E la preoccupazione di Cheeta si manifestava in cinica pigrizia, indocilità, radicata tendenza al vizio. Dopo il ritiro dalle scene e un senile programma di rehab in piena regola, oggi Cheeta è entrata nel Guinness dei primati (sorriso) come lo scimpanzé più vecchio del mondo, 76 anni contro una media di 45.
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