Genova - Lei, Elizabeth, è piccola e minuta, quasi spaesata con quegli occhi cilestrini che sembrano guardare un po’ più in là, che sembrano fissare un punto indefinito alle spalle dell’interlocutore. Nella hall dell’Hotel Continental appare un po’ persa, sembra dire Che ci faccio qui? Eppure ha viaggiato tanto, da sola e assieme a lui a quel Bruce che è il nume tutelare degli scrittori viandanti. Sì, perché Elisabeth di cognome fa Chatwin e per quindici anni è stata la moglie devota del ramingo della Patagonia, del biondino irrequieto e dandy che ha regalato una seconda giovinezza alla letteratura di viaggio. E dello spirito errante di un tempo deve aver conservato qualcosa se, come raccontano, lo zaino che sta nella teca della mostra che Genova dedica a Chatwin - quello leggendario fatto da un sellaio di Londra - lei è arrivata portandolo in spalla. Portandolo per quello che è, uno strumento dell’andare. E nel rispondere alle domande è cortese e pudica diversamente da molti che, quando hanno sfiorato la vita di un autore, non vedono l’ora di raccontare il loro ruolo e di amplificare il mito.
Signora Chatwin tutti parlano sempre del Bruce viaggiatore. Ma com’era quando l’ha conosciuto, quando lavorava da Sotheby’s?
«Iniziò a occuparsi d’arte quando era giovanissimo, appena finito il college. Aveva un talento incredibile per l’arte, spaziava dalle opere classiche agli impressionisti con facilità incredibile... Allora Sotheby’s era piccola e non specializzata ecco perché lui era preziosissimo... Io, invece, ero stata chiamata lì per allargare gli orizzonti verso i mercati americani. Ero un po’ strana per quegli inglesi, spiccavo per il mio essere yankee, e quindi era inevitabile che ci notassimo a vicenda».
La leggenda racconta che per fidanzarsi con lei, le regalò uno strano anello antico.
«È vero. Era un’anello greco con un leone ferito... non lo porto perché è di un metallo delicatissimo... Lo aveva ottenuto con degli strani baratti da un collezionista Albanese. Me lo diede a modo suo. Mi mise un pacchetto in mano, mi disse di non aprirlo subito. Poi scappò a Parigi... Io, aperto il dono capii e, ovviamente, gli corsi dietro. C’era lo sciopero degli aerei e volai con un tremendo apparecchio, credo Air India. Quando lo raggiunsi, stava a casa di amici. Mi disse solo “Lo tieni?”. L’ho tenuto».
Era un uomo che non stava mai fermo, deve essere stato difficile stargli vicino...
«Io lo sapevo sin dall’inizio, e non si può pretendere di cambiare le persone. È sempre stato onesto, lo diceva: “Io ho bisogno di andare...”. Ma sapevo che sarebbe tornato».
E il colpo di testa della fuga in Patagonia?
«Non so dire neanch’io come andò esattamente. Lui la fissazione della Patagonia l’aveva sin da bambino. In quell’anno è morto mio padre e siamo andati al suo funerale, nello stato di New York. Lui arrivò con lo zaino sulle spalle e un’altra borsa. Credo quindi che ce l’avesse già in mente. Ma non mi disse niente... Andò e basta».
Esiste un mito dello scrittore, coltivato soprattutto dai lettori, e poi esiste la vita che si trascorre vicino alla persona reale. Immagino che non fosse sempre facile?
«Del mito so poco. O meglio lo percepisco negli altri ma io personalmente sono legata al mio Bruce, quello reale. Quello con gli alti e bassi. Quello con le crisi creative. Quello che quando non riusciva a scrivere diceva: “Se non riesco a pensare almeno cammino...”. Oggi l’avrebbero etichettato come un bipolare».
Avete anche viaggiato molto insieme. Un’esperienza che un bel pezzo di mondo le invidia...
«A ragione. In viaggio era irrefrenabile, una volta mi trascinò fuori da un albergo afghano con i capelli ancora bagnati e gonfi come un’istrice per paura di perdere una improbabile corriera verso chissà dove... Ma la cosa incredibile era che in qualche modo i posti per lui non erano mai nuovi. Anche se non c’era mai stato era come se fosse vissuto lì. Lui il suo primo viaggio lo faceva studiando. La sua vera dote però era la capacità di tirare fuori le storie delle persone. Dopo che è morto mi ha scritto gente che lo aveva conosciuto alla fermata dell’autobus, gente che dopo dieci minuti aveva già iniziato a raccontargli la storia della sua vita... Lui era così metteva nelle pagine i racconti, la bellezza, il sorprendente che incontrava».
Si è spesso discusso del rapporto tra la realtà e il fantastico delle narrazioni di Chatwin. Non sempre raccontava le cose esattamente com’erano... O sbaglio?
«Non sbaglia. Visitando una casa che lui ha descritto in In Patagonia ho scoperto che era molto diversa, e anche nelle descrizioni di altri libri ci sono delle variazioni rispetto alla realtà. Magari prendeva un dettaglio visto in un posto e lo metteva in un altro. Una volta mi telefonò che gli mancava qualcosa per chiudere una narrazione, c’era un vuoto. Poi mi ritelefonò, credo il giorno dopo, dicendomi che in un pub aveva sentito raccontare proprio il dettaglio che gli serviva».
Annotava tutto sui suoi famosi taccuini. Ma non tutto quello che è stato scritto da Chatwin però è stato pubblicato.
«L’anno prossimo pubblicheremo le lettere. Ma non credo che verrà pubblicato altro. I quadernetti di Bruce erano scritti con una calligrafia minutissima a tratti illeggibile e sono veramente in forma di appunti si va, dall’annotazione al numero di telefono... Poi c’è un lungo testo sui nomadi a cui lui lavorò subito dopo aver lasciato l’università di Edinburgo. Ma questo non voglio affatto pubblicarlo, fu uno sforzo titanico ma è un lavoro grezzo e lui non avrebbe mai voluto darlo alle stampe... Quello che si è sentito di dire su quel tema l’ha detto in Le vie dei Canti».
I libri di suo marito hanno rivitalizzato la letteratura di viaggio.
«Il viaggio è apertura, è sentire la puzza o il profumo che si portano dietro le persone, visto in questo modo non perde di valore, e non conta nemmeno tanto dove si va. Muoversi per muoversi o guardare il mondo su Googlemaps quello è un’altra faccenda...».
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