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"Io, un ex selvaggio del ring ora aiuto i ragazzi in carcere"

Intervista a Rocky Mattioli. Italiano d'Australia, a 24 anni era campione del mondo medi junior. "Al Beccaria insegno boxe e cerco talenti: i pugili stanno lì, mica in San Babila"

"Io, un ex selvaggio del ring ora aiuto i ragazzi in carcere"

Rocky li guarda negli occhi e si dice: «Questo è un pugile». Ma ormai ne vede pochi. Occhi, fisico, testa: ci vuole tutto. «Abitudine alla sofferenza. Oggi vai a vendere un grammo di coca e ti prendi un casino di soldi. Invece prima di mangiare con la boxe devi prendere un casino di pugni». Rocky è Rocco, non un nome d’arte. Sarà l’effetto Stallone, ma lo immagini tanto in una storia da film: il giaccone che pende, i calzoni della tuta, un po’ larghi, una birra sul tavolo, seduto nell’angolo di un bar ad un passo dalla sua palestra. L’italiano non trema, ma pronuncia in inglese come uno appena sbarcato in Italia. E il dialetto abruzzese lo riserva alle telefonate con la mamma, che sta a Melbourne. Gli anni sono quasi 57, il fisico e la mascella ancora squadrati come quando approdò a Milano, 35 anni fa. Pescato in Australia da Umberto e Giovanni Bianchini. Rocky Mattioli fu subito qualcuno. Nato per colpire. Anche la fantasia. «Ero un selvaggio. Appena uscito dalla gabbia». Sorride. Oggi si muove quasi sentisse qualche morso d’artrosi, il fisico è pieno di tatuaggi, sembra una foresta: raccontano la storia della sua vita. Il papà lo aveva minacciato: «Te li strappo con i denti». Non c’è stato verso.

Rocky, ormai da anni, fa l’istruttore ginnico e il personal trainer a Milano: prima al club Conti, ora in una palestra in via Salvini, a Porta Venezia, ad un passo dal centro. «Ho clienti che mi seguono da 26 anni. Evidentemente me la cavo. Insegno la ginnastica che ho imparato in Australia, che serve per la boxe: la migliore che ci sia». Ma insegna anche l’arte dei pugni: alla palestra Doria, una sorta di seconda casa. Ora al Beccaria, un carcere minorile. Va a caccia di pugili, più che di pugni. C’è differenza. «Un tentativo. Mica vado a cercare boxeur in piazza San Babila. I pugili stanno nei posti malfamati, dove ci sono fame e ragazzi sbandati». Non è una caccia facile. Sono ancora pochi, avrebbe voluto costruire qualche palestra a Quarto Oggiaro, alla Barona, nelle zone più selvagge di Milano. «Ma non ci sono danari. In Australia, i ragazzi non pagavano spese di palestra. Io mi sono presentato, non ho mai tirato fuori soldi ed ho cominciato la boxe».

In carcere trova volontari d’eccezione. «Si fanno aiutare, sono obbligati. Ce n’è uno, dentro per omicidio, mi sembra un pugile. Magari quando uscirà…». Tutti stranieri, sottolinea. Italiani? Nemmeno l’ombra. E qualcuno dice: Rocky, quando vengo fuori… «Cosa crede? Condivido la loro sorte. Anch’io sarei finito in carcere. In Australia presi a botte due-tre poliziotti. Ma quando toccò a loro… mi ammazzarono! Però al processo arrivò mezza Melbourne a testimoniare per me. E mi salvai». Al Beccaria fa lezione una volta alla settimana. Ragiona: «Ci vorrebbe uno sponsor. Ho cominciato ad ottobre, ho portato guantoni e sacchi. Aiuto loro, come sono stato aiutato io. La boxe dimostra che non puoi vincere per un calcio, una coltellata, una fucilata. Qui solo pugni».

Rocky si rivede. «Ma, alla loro età, ero già professionista». Esattamente quaranta anni fa. L’Australia del ring era una giungla. «Fra le corde non pensavi che ad ammazzare l’altro. Per salvarti. Gente dura, poche cose e tanta cattiveria. Ora i ragazzi fanno flanella. A 13 anni entrai nel ring: ero uomo. A 16 sono diventato professionista». Il 9 marzo 1970 il primo match. «Vinsi per ko al 2° round contro Tony Salta, un altro oriundo. Due anni fa ricevo una telefonata da un amico di Lipari. Mi dice: ti passo uno. E quello: Rocky, come mi hai fatto male quella volta. Era lui: Tony Salta. Non l’avevo più visto e sentito». Ripassa la vita: «A 12 anni lavoravo e faticavo: scaricavo cemento, poi da un panettiere e alle tre del mattino ero in giro. Mi tenevo il tanto per le sigarette ed una bottiglia di birra».

Cosa può raccontare ai ragazzi dietro le sbarre? Forse la storia più straordinaria della sua vita. Padre di tre figli, Mattioli dopo 30 anni ha scoperto di essere papà di una ragazza, in Australia. Fuori programma di quand’era diciassettenne, amore dietro ad una chiesa. Non sapeva, non immaginava. E quando ha visto la ragazza, gli è scappato: «Ma tu sei Anna!». Sembrava sua sorella. A casa, moglie (oggi ex) e figli, non hanno gradito. Ma quelli erano anni di pugni e vita. Quando Stan Mounsey, un reduce del Vietnam, lo rimandava a casa con le lacrime agli occhi. «Ci picchiava. Selvaggiamente. Si ubriacava al pub e poi ci menava di più in palestra. Voleva insegnarci la sofferenza, abituarci alla difesa. Io piangevo, piangevo. Poi ti abitui».

Rocky pensò anche di prendersi la rivincita. «Ero senza soldi. Mi servivano. Allora sono andato a frugare nelle tasche di chi stava in doccia. Raccatto e via! Ero un bastardo. Oggi saresti una testa di mischia. Ma si faceva perché serviva. Stan s’infuriò. Una bestia. Urlava: se prendo quel figlio di puttana, gli stacco la testa. E io zitto e cadaverico. Da allora lasciai perdere».

La sofferenza gli insegnò a stare sul ring. «Mi picchiavano perché ero italiano. Dicevano: piccolo verme, piccolo spaghetti. Ripetevano: Wag. Che, letto sul vocabolario, non è un dispregiativo. Ma nelle lingua lo diventa». Poi è stato un grande pugile, a 20 anni già campione d’Australia, a 24 campione del mondo dei medi junior. Aveva un gancio sinistro meraviglioso. I combattimenti europei, prevalentemente a Milano, gli sono sembrati giochi da ragazzi rispetto alle corride australiane. È stato grande. Poteva esserlo di più. È il rimpianto di una storia.

Rocky a Milano trovò l’amore, nacque il primo figlio. Umberto Branchini ne vide i segni del decadimento. È ancora un cruccio. «Il matrimonio mi ha ammorbidito. Sono diventato troppo per bene, non più quell’animale selvaggio che si scatenava. Per far la boxe non dovevo sposarmi. Intendiamoci: non rimpiango niente. Va bene così. Ma Branchini l’aveva capito. Mi disse: sei troppo sensibile». Una lezione da insegnare ai ragazzi. Con altro tipo di rimpianto. «Potevo essere più grande di Benvenuti», dice senza badare al pedigree. «Certo, non sarei stato più di Loi: il migliore di tutti». Dopo aver vinto il mondiale in Germania contro Eckehard Dagge, pupillo di un potente organizzatore - pellicciaio, tutto franò, 39 anni fa a Sanremo (e nella rivincita l’anno dopo), contro Maurice Hope, inglese di colore dall’essenza di giaguaro. Rocky ne uscì con il braccio destro spezzato e venne fermato al termine dell’8° round. Racconta l’antefatto: «Sono davanti all’Ariston, traverso la strada e fermo un motorino Ape. Così, bloccandolo con la destra: mi era passato sul piede. Dolore! Lo shock mi mandò in sovrappeso. Alla sera ne capii le conseguenze».

Mattioli era un guerriero, mai si sarebbe arreso. Gli incontri sembravano battaglie da film. «Il mondiale è stato importante. Ma il match più bello mi capitò a Milano con Alfonso Haymann. L’arbitro diceva solo: stop and go. Non interveniva e noi picchiavamo». Quello è il ring. C’è inciso sulle sue mani. Una dice: «love». L’altra porta scritto: «hate». Amore e odio. Ti spiega: «Come la vita: black and white». Nero e bianco, tu o io, dentro o fuori, guardia o ladro. Stop and go. La vita è tutto un match. Vero Rocky? Si alza dal tavolo, sorride di sbieco. È un saluto. «Ehi amico, mi raccomando, metti una bella foto di quand’ero pugile. Me la merito.

Non ti pare?».

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