«Io, fantasma per 12 anni e oggi bestsellerista anomalo»

Quasi 80mila copie vendute - ma punta alle 100mila a breve - quarto posto in classifica, copertine, apparizioni in tv, dalle Iene alle Invasioni barbariche, recensioni a pioggia e un giro completo della rete: il tappeto rosso del successo letterario si è srotolato in meno di venti giorni per Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas (Marcos y Marcos, pagg. 320, euro 17). Trevigiano, 57 anni, insegnante: dalle caratteristiche del botto potrebbe sembrare un esordio, magari costruito a tavolino da una grande casa editrice. E invece. Invece Ervas è già uno scrittore. Scrive da dodici anni, un libro l’anno. È al quinto romanzo con protagonista l’ispettore Stucky, eroe di provincia di origini persiane. Ha altri cinque o sei manoscritti nel cassetto e un editore di minuscole ma solide dimensioni che ha creduto in lui dall’inizio. Ha una schiera di lettori affezionati e nel Nordest le sue presentazioni vanno esaurite da anni. Poi decide di aiutare Franco Antonello a raccontare la storia del suo viaggio insieme al figlio Andrea: in motocicletta lungo 38mila chilometri in quattro mesi a cavallo di due Americhe. Per combattere l’apparente incomunicabilità cui li costringe una malattia chiamata autismo. E il successo, quello vero, arriva. All’improvviso.
Ervas, che succede?
«Il successo nel mio caso è una stravaganza multifattoriale, come l’autismo. Frutto di alcune anomalie. La prima è che una casa editrice che non è un transatlantico e non ha potere contrattuale abbia schivato tutti gli ostacoli e sia arrivata in alto. La seconda è che non sono un esordiente, non ho mai vinto premi letterari e non sono un giovane fisico. Quindi come scrittore sono ormonalmente stabilizzato. La terza è il bisogno di buonismo di un’Italia fustigata dalla crisi. La quarta è che in fondo di storie come questa ce ne sono migliaia di altre».
Non sembra un fattore di successo.
«Infatti. L’anomalia è che questa è scritta bene. Ho letto Zigulì di Massimiliano Verga, per citarne uno, e onestamente trovo che la scrittura qui sia migliore. Inoltre io non sono il padre di Andrea e questo dà alla storia la giusta distanza».
Però i lettori prima di comprarla non lo sanno.
«La scrittura non sarà un moltiplicatore di vendite, però è un’ottima motivazione per il passaparola. E l’attenzione poi diventa mercato».
Non sottovaluta la potenza delle ospitate in tv?
«La televisione crea casi letterari che sono già casi letterari. Tutto ciò che capita a questo libro, agli Stucky non sarebbe mai successo. I programmi tv che alzano le vendite - e ce n’è sostanzialmente uno - non fanno un vero servizio culturale, ma marketing a costo e rischio zero».
Questo successo le ha cambiato la vita?
«Io sono una gallina che ormai il suo brodo lo aveva fatto. Un’altra vera stravaganza invece è che sto scoprendo di essere seguitissimo da anni da gente importante che mi stava studiando prima che facessi il boom. Peccato me lo dicano tutti adesso. Compresi curatori di importanti Festival letterari e giornalisti e colleghi scrittori che mai hanno speso una parola per i miei libri precedenti, a parte Massimo Carlotto. Anche quei librai che prima mi ignoravano deliberatamente, adesso si arrabbiano perché non faccio le presentazioni da loro».
L’ambiente letterario italiano non le piace?
«È fatto di nicchie ecologiche occupate in maniera stabile. Diventi visibile solo quando hai venduto la centomillesima copia. Si sfonda solo con le coincidenze: impossibile emergere per libera competizione, devi farti i circuiti. Dal punto di vista biologico, il mio libro è una mutazione improvvisa su un materiale genetico stagnante. Fatto di dinosauri».
Ma quest’avventura com’è cominciata?
«Franco Antonello mi ha cercato, ci siamo conosciuti davanti a uno spritz e abbiamo proseguito al bar: alle otto e mezza in punto dei miei giorni liberi lui arrivava al tavolino e si faceva il punto. Mi raccontava il viaggio con suo figlio, giorno per giorno. Per undici mesi. Senza nemmeno sapere se poi l’avremmo pubblicata davvero. Posso dire che questa è stata la storia a cui tante volte ho pensato di rinunciare. Era superiore alle mia capacità. Non di scrittura, ma umane. Mi sono rotto un piede, ho avuto un incidente, mal di testa come mai in vita mia: il mio corpo ha lottato contro questo libro, il mio profondo diceva: “Molla”, anche perché spesso lavoravo a notte fonda».
Ma non ha mollato.


«Questo è un libro molto maschile, in cui si cerca di raccontare che cosa sia la paternità, sentire un legame di sangue. Non potevo dire a Franco che mollavo: ci eravamo sputati sulle mani e stretto un patto fra maschi. Glielo avevo promesso e dovevo finire la sua storia».

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