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"Io li ho messi nel sacco: così si sono arresi"

"Io li ho messi nel sacco: così si sono arresi"

«È vero, posso dire di aver messo in sacco la Rai. Ho fatto la mia domandina, uguale a quella che voi avete illustrato, ho pagato 10mila lire e ho chiesto che venissero a “suggellare” la mia tv, a metterla in un sacco di juta. Ancora sto aspettando... ». Leonardo Facco ha 45 anni e ha scritto il libro Elogio dell’evasore fiscale (Aliberti editore), vive a Treviglio, in provincia di Bergamo, ed è un lumbàrd vero. Lo raggiungiamo telefonicamente a Montichiari, a una kermesse dei padri negati che chiedono il riconoscimento dei propri diritti. Una battaglia scomoda, come quella sul canone Rai. Che Facco ha già vinto con largo anticipo.

Era il 1992. Da allora cos’è successo? Solo due ispezioni, persone venute a «informarsi». «Due impiegati zelanti, poverini. Sono venuti nel 2004 e nel 2005. Gli ho risposto che no, la televisione non ce l’ho più. Ma non li ho mica fatti entrare in casa. Per quello ci vuole un mandato del magistrato. L’appuntamento per “insaccare” la tv va concordato, altrimenti amen. E sulla porta di casa gli ho raccontato che la mia è una battaglia di libertà. Volevano convincere me, mi sa che sono io ad aver convinto loro... ».

Convinti di che? Da anni Facco è un teorico della disobbedienza fiscale: «È l’unica vera arma per modificare lo status quo. La storia ce lo ha insegnato. Charles Adams ha scritto in un bellissimo libro, For good and devil, la storia mondiale della tassazione. Dove si legge che tutte le rivoluzioni sono avvenute per motivi fiscali, dall’indipendenza americana a quella indiana, ecc. Perché? Non esiste libertà politica senza libertà economica, a differenza di quanto sosteneva Benedetto Croce».

E stasera a Ballarò si parlerà anche della «sua» rivolta fiscale contro il sostituto d’imposta. Perché il canone Rai è la punta dell’iceberg di un problema come la pressione fiscale «che in Italia non è del 43% ma è pari al 65%, come dimostra uno studio pubblicato sul mio volume. Qui siamo alla schiavitù - urla per vincere un brusio di sottofondo - come i neri nei campi di cotone». Esagerato. «Macché, siamo ostaggio di teorie economiche che ci hanno messo in testa. La disobbedienza fiscale è una rivolta p-a-c-i-f-i-c-a. È un segnale fondamentale del fatto che in Italia la febbre è altissima, e sfiora quota 40 gradi, in un cortocircuito folle tra inefficienza dei servizi e pressione fiscale di livello borbonico. Per capire come sgravare un costo o pagare un bollettino si diventa pazzi. Solo l’Irap pesa l’8% sul carico fiscale. E se una tassa è ingiusta, o è considerata ingiusta, e l’opinione pubblica si mobilita, è giusto che vada cancellata. E questo stesso principio va spalmato su tutti gli altri balzelli. Non è vero, ad esempio, che lo Stato sia l’unico titolato a erogare servizi. È un diritto che si arroga da solo. Ma non è in grado di farlo. Dalle migliaia di municipalizzate alla Rai, c’è un moltiplicarsi di poltronifici dove piazzare i trombati. E io pago. Anzi, non pago più».
Guai a parlare di servizio pubblico, o si rischiano i timpani.

«Ma ragazzi, ma lo sanno tutti cos’è la Rai. Raitre è l’ultima a essere decisa, perché si aspetta di sapere chi sarà il prossimo segretario Pd. La Rai è questa roba qui. E la tv non è necessariamente un servizio che deve dare lo Stato. Non con questo boom tecnologico. Sa quando si è capito che la tv sarebbe diventata terreno di scontro politico? Nel 1972, quando un genio scoprì la tv locale via cavo (l’ex regista Rai Peppo Sacchi, inventore di Telebiella, ndr). Chi interviene? La magistratura, che gli fa chiudere la tv. Se non fosse intervenuta oggi avremmo la tv via cavo da 30 anni. Altro che canone».

È naturale che la campagna lanciata dal Giornale lo abbia letteralmente entusiasmato: «Mi auguro che abbia una grande rilevanza e che il vostro direttore non faccia alcun passo indietro. Perché se esistesse veramente un’unità d’intenti e una grande massa pronta a fare una determinata azione, il mondo politico sarebbe obbligato a prenderne atto e fare dei passi indietro. E anche se agli italiani piace tirare la pietra e nascondere la mano, basta uno solo a dimostrare che il re è nudo. Io non mi sento un agnello sacrificale, ma una testa d’ariete...».
felice.

manti@ilgiornale.it

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