«Io, un milanese in maglia rosa per un giorno»

«Io, un milanese in maglia rosa per un giorno»

Ci sono tanti mondi di vincere il Giro d’Italia, uno dei più semplici è vincere al Giro. Gabriele Bosisio ci è riuscito. Tappa a Pescocostanzo e maglia rosa vestita per un giorno all’Alpe di Pampeago: partito da Palermo approda a Milano, da lì in poi... Sono molte le squadre che vorrebbero questo ragazzo, dal volto yankee e il sorriso sincero. «Nel mio piccolo il Giro l’ho vinto anch’io - dice Gabriele, 27 anni, milanese, ora nella lecchese Rogeno, da quattro stagioni professionista con quattro vittorie -. Se mi avessero detto all’inizio che avrei vinto una tappa e soprattutto avrei vestito la maglia rosa non ci avrei creduto. Questo Giro è stata per me davvero un occasione irripetibile. Penso di aver dimostrato a me stesso, alla mia squadra e ai tanti appassionati che posso essere un corridore con la C maiuscola».
È vero che in questo Giro qualcuno ha imparato a conoscerla, ma è il caso di ripetere la sua storia.
«Ho iniziato a 8 anni. Fu Giuseppe Nava, che si occupava della società ciclistica Costamasnaga a chiedermi se volevo una bicicletta. Non ci credevo. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito, l’ho avuta».
Scusi, ma ad un certo punto non solo l’ha abbandonata ma l’avrebbe anche segata in due...
«È vero, mi divertivo tanto, ma la fatica era davvero tanta e risultati non erano quelli sperati. Nella mia carriera giovanile ho vestito le maglie del Sovico e, tra i dilettanti, quelle della Cabiatese, Regione Insubrica e due anni con il team Aurora. Vittorie zero. Allora decido di dire basta col ciclismo, vado a lavorare. Mi dico: “Ho il diploma di perito, perché non farlo fruttare? Così faccio, se non che arriva Paolo Riva, presidente dell’Aurora, e mi convince a riprovarci. Ottengo tre vittorie che mi garantiscono il passaggio tra i professionisti».
Poi?
«Nel 2004 faccio subito il Giro. Cosa mi ricordo di quella esperienza? La stanchezza. Mi ripetevo: “Non ce la farò mai a diventare un corridore”. Ero anche un po’ più grassottello. Finivo tra le ammiraglie, però ma non mi sono dato per vinto. Purtroppo però la mia squadra non è stata invitata al Giro per tre anni e io ho cominciato a pensare: “Vedi, hai amato poco questa corsa e adesso non la correrai più... ”. Quest’anno il sogno si è avverato: siamo tornati a correre la più importante corsa a tappe italiana».
Ci racconti quella fantastica cavalcata del 16 maggio, verso il traguardo Pescocostanzo…
«Parte una fuga e io con loro: 161 chilometri in avanscoperta. Il piano prevedeva che io e il mio compagno di squadra Pietropolli entrassimo nelle fughe e che Danilo Di Luca, il nostro capitano, attaccasse. A un certo mi hanno dato il via libera».
Alla fine c’è stato chi ha accusato lei e la squadra di aver condotto una gara scellerata contro Di Luca...
«E la cosa mi ha amareggiato molto, perché non è così. Danilo era d’accordo sulla scelta della squadra».
Quel giorno le polemiche non sono mancate: lei scattò nel momento in cui Emanuele Sella forava...
«Posso dire di essere stato l’unico ad aver fatto piangere Emanuele, grande protagonista sulle vette di questo Giro, ma non mi sono accorto di nulla. Ero davanti, sono partito a 7 chilometri dal traguardo e non ho visto nulla. Sella è uno scalatore, il finale lo favoriva. Così ho deciso di anticiparlo per non correre pericoli. Alla fine ci siamo parlati e Emanuele ha capito la mia buona fede».
La maglia rosa sull’Alpe di Pampeago?
«Un sogno. Per un giorno il numero uno del gruppo.

Purtroppo l’ho indossata ai piedi delle grandi montagne e io non sono un grande scalatore ma un buon passista. Però è il souvenir più bello che potessi ricevere da questa corsa. Ho dormito con la maglia rosa addosso. Sono cose che sogni fin da bambino e ad un certo punto i sogni si avverano».

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