«Io? Posso soltanto fare danni»

Dicono che rischi, Allegri. La panchina, il posto, il futuro immediato. Adesso dicono tutto, perché è facile: si fatica là sotto, a pescare punti, a dimostrare che l’anno scorso non è stato un caso. Fino a poco tempo fa era tutto un complimento: gli avevano pronosticato una panchina da grande. Lazio per qualcuno, Milan per altri. Adesso? Adesso solo i critici, i gufi, i saputelli. Lui parla uguale, con lo stesso accento, con la stessa certezza che il calcio comanda sui suoi teorici. C’è la palla, i calciatori, la bravura, il caso. Il resto è chiacchiera.
C’è Cagliari-Genoa. L’anno scorso ci sarebbe stato da divertirsi. Quest’anno?
«Molto meno. Credo che non sarà una bella partita».
Perché?
«Ci sarà molta difficoltà nell’andare a far gol. Troppo importante il risultato. Noi e loro veniamo da due sconfitte».
Si sente in pericolo?
«Direi di no. Sono tranquillo. Credo che abbiamo ancora dei margini di miglioramento come squadra, ma soprattutto dei margini di classifica su quelle dietro».
Quando ha sentito Cellino per l’ultima volta?
«Martedì».
E che vi siete detti?
«Che dobbiamo solo salvarci. L’anno scorso è stato un anno particolare, ma quest’anno mi accontenterei di salvarmi anche a dieci minuti dalla fine dell’ultima giornata. Abbiamo cinque undicesimi nuovi rispetto all’anno scorso. Siamo giovani».
Giovane la squadra e giovane lei. Secondo lei i giovani allenatori sono vittime di pregiudizi?
«No. È come con i giocatori: se uno è giovane ed è bravo è giusto che giochi. Un allenatore giovane può pagare in inesperienza, ma questa è una regola di vita».
Però non ce ne sono tanti di allenatori giovani?
«Ma uno deve anche avere le qualità per farlo, altrimenti lo farebbero tutti. Se un presidente ritiene che uno sia all’altezza è giusto che lo prenda. Certo però non si pretenda di pensare che siamo tutti uguali».
Cioè?
«Non siamo tutti Guardiola».
Giovanni Galeone è ancora il suo modello?
«Sì. Abbiamo passato sei anni insieme, lui allenatore io calciatore. Poi tre mesi a Udine, quando gli facevo da assistente. C’è un rapporto speciale: c’è affetto, c’è amicizia».
Che cosa le ha insegnato?
«A non ingabbiare la fantasia».
E vi vedete ancora?
«Sì, spesso. E quando ci vediamo parliamo poco di calcio, anche se sembra impossibile».
Manca un Galeone in questo calcio?
«Lui è sempre stato descritto come un personaggio naïf, perché c’è la brutta abitudine a giudicare le persone senza conoscerle. A lui è successo. Il calcio è cambiato, ma uno come lui farebbe sempre comodo a questo mondo».
S’è parlato di lei quest’estate, prima per la panchina del Milan, poi per quella della Lazio. È vero che non l’ha chiamata nessuno?
«Verissimo».
Quindi?
«Quindi sto a Cagliari, dove sto benissimo».
È vero che non vuole fare per sempre l’allenatore?
«È vero che una volta Cellino mi disse una cosa che non dimenticherò mai. Ero ancora calciatore qui a Cagliari e lui mi disse: “Se vuoi fare l’allenatore nella vita, sappi che puoi farlo per massimo 15 anni”».
E lei?
«Penso che se uno fa per 15 anni l’allenatore di squadre che lottano per salvarsi, la tensione è così tanta che magari a un certo punto non ce la fai più. E io sarei contentissimo di fare così».
È ancora legato a Livorno?
«Moltissimo».
E se vince contro il Livorno esulta?
«...Sì esulto. Sono un professionista. Non si può pensare che esultare sia una mancanza di rispetto».
E ai suoi giocatori che non esultano che dice?
«Ora c’è questa moda di non esultare. Il rispetto maggiore di un professionista è quello di fare il massimo per il club nel quale si lavora. Il gol è un momento in cui l’emozione ti sale addosso e le emozioni non vanno mai soffocate».
Perché prende gli schemi dal basket?
«Sono un grande appassionato di pallacanestro. È uno sport che ha inventato molte cose: la zona per esempio. Loro la facevano molto tempo prima che venisse fuori nel calcio. Io cerco di ispirarmi ad alcune teorie, ma poi è impossibile applicarle».
Perché?
«Nella pallacanestro si gioca in un campo piccolo. Si usano le mani e i piedi servono solo per correre. Cinque secondi per pensare e spesso a pochi secondi dalla fine, la palla viene data al più bravo per l'uno contro uno. Dal calcio si pretendono schemi che vengano alla perfezione in un contesto sconnesso, tra rimbalzi irregolari e fenomeni atmosferici, anche violenti. È un assurdo. Poi si corre con i piedi e si gioca con i piedi, è un casino. Mi fanno ridere quelli che parlano di schemi nel calcio. Credo che ci sia un po’ troppa presunzione».
Cioè siete voi i presuntuosi, gli allenatori...
«Sì. Si vuol far passare il calcio per una scienza. È una balla. Ci vuole una buona organizzazione della squadra e dei buoni giocatori che abbiano tecnica».
Quindi lei non ha un quaderno sul quale traccia gli schemi?
«No. Io a scuola sono andato poco, quindi faccio anche fatica. E poi se dominassero davvero gli schemi, ogni settimana si farebbero le stesse cose, in attacco e in difesa. Invece non è così. Io cerco di dare un’idea alla squadra, poi la partita la fanno i calciatori. La differenza la fanno quelli bravi. Si gioca a calcio, c’è un pallone e noi dobbiamo cercare di farlo diventare nostro amico».
Ma quanto conta l’allenatore?
«Tanto nelle categorie inferiori, dove c’è meno qualità e dove l’organizzazione ti protegge e serve a vincere molto di più di quanto avvenga in serie A, dove l’anno scorso gli 0-0 sono stati non più del 5% dei risultati finali. Lo ripeto sono i giocatori che vanno in campo: sono loro che vincono le partite. L’allenatore li può solo far perdere».
L’anno scorso l’hanno messa in contrapposizione filosofica con Mourinho. Che cos’è che non le piace dell’allenatore dell’Inter?
«Non è vero. È una persona molto sveglia, intelligente, la carriera parla per lui. Non è facile per uno straniero arrivare in Italia, forse però lui aveva sottovalutato il nostro calcio».
Ha detto che bisognerebbe abolire la zona dai campionati giovanili. Perché?
«Perché ora ci sono molti meno ragazzini di prima che giocano a calcio. C’è la Playstation, la Wii, il Gameboy, internet. Bisogna invogliare i bambini a giocare e per farlo li devi mettere uno contro uno, col pallone in mezzo, non puoi insegnargli la diagonale, la zona e cose così».
Lei era meglio da calciatore o da allenatore?
«Non lo so. Lo vedremo quando smetterò di allenare. Sono stato un buon giocatore e sono arrivato dove ho meritato, credo che questo valga per tutti: il calcio ti dà quello che meriti».
Però per gli allenatori questo è più difficile...
«Sì, le variabili sono troppe: i presidenti, i giocatori, dalla panchina non puoi incidere».
Ma non le viene mai voglia di entrare in campo?
«Assolutamente no. Quando ho deciso di smettere di giocare ho avuto il rigetto del pallone».
L’anno scorso dicevano: «Allegri è il nuovo che avanza». Ha sentito un po’ di invidia nei complimenti?
«Qualcuno sarà stato invidioso. Ma credo che sia normale: accade ovunque».
Le è mai capitato di pensare all’esonero?
«No. L’ho vissuto un esonero. È successo a Grosseto e mi ha fatto anche bene.

Dagli esoneri uno si ferma, cerca di capire dove ha sbagliato e si rimette a lavorare. Però uno deve tenere sempre presente che le variabili nel pallone sono troppe: tu puoi fare la partita perfetta, poi ti picchia la palla sul palo e vieni esonerato. Succede. Basta sapersi riprendere».

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