«Io, prigioniero a Creta e condannato a morte»

Gli ufficiali non tradirono. Le vicende dei soldati italiani catturati dopo l’8 settembre ’43 rievocate dall’allora sottotenente Alberto Vicini

«Io, prigioniero a Creta  e condannato a morte»

Alessandro Massobrio

Creta, ancora Creta. Perché la storia non è mai finita. Perché la storia può sempre ed ancora essere raccontata. Uno strano gioco di prospettive, una insolita angolazione degli eventi sono in grado di illuminare, a proposito del medesimo episodio, nicchie e recessi d'ombra, che nell'ombra altrimenti rimarrebbero per sempre.
Ombra, ho detto? Ce n'è davvero bisogno in queste afose giornate di giugno, ma l'appartamento del dottor Alberto Vicini, arrampicato all'ultimo piano di un severo palazzo di corso Firenze di ombre non è avara davvero. Il dottor Alberto Vicini è un energico ottantaquattrenne, dalla memoria infallibile e dalla cortesia d'altri tempi. È stato anche lui a Creta ma come sottotenente di fanteria, anche lui, dopo l'8 settembre, ha vissuto l'amarezza della prigionia, pur senza mai accettare di collaborare con gli ex alleati tedeschi.
Com'era la situazione delle truppe italiane a Creta, quando lei vi arrivò nel '42?
«Molto particolare. Lei deve sapere infatti che le nostre forze d'occupazione (circa 20mila uomini, forniti dall'intera Divisione Siena, dal 256° e dal 341° reggimento di fanteria, nonché da un battaglione di Camicie Nere, da gruppi speciali di artiglieria, da unità del Genio, della Marina e dei Servizi) erano stati inviati da Mussolini nella parte orientale dell'isola, a Sitia, allo scopo di bilanciare in qualche modo la presenza germanica. Hitler, infatti, aveva ammassato nella parte occidentale e centrale di Creta circa 40mila veterani di una divisione corazzata (che già aveva combattuto a Sebastopoli), nella convinzione che l'offensiva degli alleati in Europa si sarebbe sviluppata attraverso quella che allora era chiamata la Balcania. Mussolini, che non voleva, per così dire, rimanere indietro, all'insaputa del suo alleato, fece occupare l'estremità est dell'isola, dando così origine a momenti di notevole tensione, che per poco non degenerarono in aperto scontro. Poi italiani e tedeschi giunsero ad un'intesa, delimitando le rispettive zone di occupazione».
Lei come fu catturato?
«Io, come tutti gli ufficiali italiani, fui catturato con un colpo di mano alla tedesca subito dopo l'otto settembre. Quello che destò profondo sconcerto tra le truppe fu però - come del resto le ha già raccontato il signor Uca nella precedente intervista - la fuga a Tobruk, in Egitto, del generale di divisione Angelico Carta, ai cui ordini stavano i ventimila italiani presenti a Creta».
Sul generale Carta, su cui le acque della storia si sono, dopo la fine della guerra, misteriosamente richiuse, è apparso, due anni orsono, un interessante saggio dello storico inglese Antony Beevor (Creta, Rizzoli, Milano 2003), che cerca di far luce su di uno degli episodi del secondo conflitto mondiale ancora avvolti nelle ombre del mistero. Perché, in altri termini, il generale Carta fuggì dall'isola, abbandonando al loro destino migliaia di soldati e centinaia di ufficiali? Perché dopo la guerra non ci furono indagini sul suo comportamento? Quale fu la sua posizione nei mesi immediatamente precedenti all'otto settembre?
Il generale Angelico Carta - come osserva nel suo libro Antony Beevor - «era basso e rotondo, con un monocolo ed un'amante sistemata vicino alla base di Neapolis». Apparteneva a quel mondo aristocratico e, in fondo, antifascista (anche se il dottor Vicini ricorda di averlo sentito, ancora nell'ottobre del '42, definire Mussolini un «semidio»), che aveva come punto di riferimento soprattutto la dinastia dei Savoia.
A Creta, si era comportato con grande moderazione e rispetto per la popolazione locale, divenendo in qualche modo un punto di riferimento anche per gli agenti britannici che erano presenti nell'isola.
Ci spieghi meglio, dottor Vicini
«Sembra che, subito all'indomani del 25 luglio, dopo cioè la caduta di Mussolini e la presa del potere da parte di Badoglio, Carta sia stato molto attivo per cercare di anticipare gli eventi. In altri termini, egli voleva sapere che cosa sarebbe accaduto al contingente italiano nel caso in cui (caso che sembrava sempre più probabile) gli alleati di un tempo si fossero trasformati in nemici di oggi. Non è escluso perciò che la fuga a Tobruk su un sommergibile britannico gli sia stata, in qualche modo, imposta… Voglio dire che se Carta non fosse stato fatto fuggire, i tedeschi, che erano al corrente delle sue manovre, probabilmente l'avrebbero fatto fuori».
Ma torniamo a lei. Ci racconti la sua cattura.
«Fui preso prigioniero, insieme con altri trenta ufficiali, vicino al campo di aviazione di Màleme. Un campo di aviazione dove nel '41 si era svolti i maggiori combattimenti tra paracadutisti germanici e truppe inglesi e neozelandesi. Noi fummo catturati da un reparto di alpini tedeschi, che subito ci radunarono in un capannone, per farci sapere che eravamo dei traditori e che dei traditori avremmo subito la sorte».
Lei e i suoi erano ancora armati?
«Noi avevamo consegnato le armi subito dopo l'otto settembre, per ordine del generale d'armata Vecchierelli di Atene, da cui dipendevamo. Per fortuna, nello sconcerto generale, si alzò in piedi un ufficiale umbro, che a lungo aveva lavorato in Germania e che quindi conosceva bene il tedesco, il quale ebbe il coraggio di ribattere che il traditore era semmai il generale Carta, che, con la sua fuga, prima di tradire gli alleati, aveva tradito i suoi stessi uomini. Incredibilmente le parole del mio collega umbro ebbero il potere di ammansire la rabbia del tedesco».
Ecco, i tedeschi: com'erano visti dalla popolazione locale?
«Erano oggetto dell'odio più violento. I cretesi sono una popolazione di cacciatori, ben diversi dai greci. Quando il generale Student decise l'invasione dell'isola con i paracadutisti, ottenne il risultato di perdere ben quattromila uomini su seimila lanciati. E molti di questi quattromila furono uccisi, mentre ancora oscillavano appesi ai paracadute, dalle fucilate degli abitanti. Viceversa tra la popolazione locale e gli italiani i rapporti furono sempre molto buoni, anche per merito del generale Carta, come riconosce lo stesso Antony Beevor».
Come mai?
«Carta si comportò sempre in modo non sanguinario. Quando qualche partigiano veniva catturato e dal comando tedesco ci giungeva l'ordine di fucilarlo, Carta organizzava sempre le cose in modo da permettere al prigioniero la fuga. Massimo rispetto, dunque, ma anche massima distanza. Non condivido, se devo essere sincero, quanto affermato dal signor Uca circa l'armata "sagapò". Questo è semmai un discorso che vale per Atene, non certo per Creta. Nei villaggi le donne non si vedevano. Nei rarissimi casi in cui qualcuno tentò di aggredirne qualcuna, la repressione di Carta fu durissima. Il comandante della mia compagnia, certo Dodero, spedizioniere proprio di Genova, una volta colse un cuoco, al mercato, allungare le mani su una ragazza del posto. Ebbene, incominciò a tempestare il malcapitato di tante di quelle botte che quest'ultimo credo se ne ricordi ancora. Non ti mando alla corte marziale, gli diceva, ma ti tolgo io la voglia di trasgredire gli ordini».
Con i cretesi non c'era insomma molto da scherzare?
«Per niente. Sarà stata forse il retaggio della mentalità turca, certo è che i cretesi erano soldati valorosi ma crudeli. Pensi, ad esempio, che la divisione cretese che combatté in Albania, era solita non far prigionieri».
Per concludere, a proposito di prigionieri, mi chiarisca una volta per tutte la sorte a cui andarono incontro, dopo l'otto settembre, gli ufficiali italiani presenti sull'isola.


«Gli ufficiali superiori furono immediatamente imbarcati dai tedeschi e portati in Germania. Gli altri vennero divisi completamente dalla truppa. Per cui si può parlare non di ventimila italiani abbandonati ma, semmai, privati violentemente dei loro ufficiali».

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