Sono sempre stato fra quelli che hanno difeso la libertà di morire quando la vita si riduce a un inutile, interminabile niente senza speranza. «Staccare la spina al malato terminale», ho sempre sostenuto, «quando abbia manifestato la lucida volontà di non prolungare all’infinito un’agonia fatta solo di strazio».
Ho scritto le stesse cose anche su Eluana, proprio sul Giornale, e non me ne pento, non lo rinnego. Ma non sapevo allora - non ci avevano spiegato bene, forse non per caso - che quella povera ragazza non sarebbe stata aiutata a morire con un’iniezione che la portasse dolcemente dal nulla al Nulla. Ora sappiamo, invece, che la uccideranno nel modo più belluino e crudele, la più atroce delle morti, per fame e per sete. Ho letto, anni fa, la descrizione di un corpo umano che si consuma nella disperazione per mancanza d’acqua, la mente che impazzisce come per un soffocamento che dura giorni, tutti gli organi che implorano l’acqua.
Ci dicono - ma non tutti i medici sono d’accordo - che Eluana è in uno stato tale e da non poter provare alcun dolore. E che ne sanno, davvero, loro? La medicina è tutt’altro che una scienza esatta. Ci sono state, negli ultimi cinquant’anni, scoperte impensabili, e altre ce ne saranno: forse determinanti anche nel segnare il confine fra la vita e la non vita.
E allora dico che non abbiamo il diritto di infliggere un rischio così mostruoso a una creatura che dipende in tutto e per tutto da noi. Lo dico, badate, non tanto sul filo di un ragionamento logico come quello espresso sin qui, ma per la spinta di un’emozione che è più forte e più sana della logica. Non ho potuto non pensare, e è stato uno dei pensieri più dolorosi della mia vita, cosa farei se dovessi scegliere per mio figlio nel caso si trovasse nelle stesse condizioni di Eluana: o la morte indolore o la prospettiva di passare decenni in condizioni vegetali nell’attesa di un miracolo divino o scientifico ugualmente improbabili. Ebbene, io vorrei per lui un’iniezione liberatrice. Però, se mi prospettassero la sua agonia per fame e per sete troverebbero una tigre a difendere non il suo diritto a vivere, ma il suo diritto a non venire ucciso in quel modo: nel dubbio che anche soltanto una fibra del suo corpo-vegetale gridi, muto come una pianta, ACQUA ACQUA, MAMMA, BABBO, ACQUA.
Il padre di Eluana. Ho sempre avuto, e ho il più grande rispetto per il suo dolore e per le sue decisioni. Anche oggi. Sono sicuro che è certo di fare il bene di sua figlia, che ama, e la mia pena per lui è ancora più grande. Qualunque cosa decida, è una vittima, non un carnefice.
È intollerabile però l’ipocrisia, il pilatismo di chi ha deciso che non si può uccidere Eluana ma che si può lasciarla morire sepolcri imbiancati, sia che abbiano le toghe nere sia che abbiano i camici bianchi.
Appare sempre più evidente che c’è un bisogno disperato di una legge sul testamento biologico, e bene ha fatto il governo a tentare di fermare lo strazio di Eluana con un decreto legge. Mentre è freddamente burocratica la decisione di Napolitano di non firmare il decreto. Giuridicamente ineccepibile, forse, ma umanamente disumana.
Viviamo, è evidente, in uno Stato schizofrenico e incerto, privo di un vero senso della giustizia. Lo stesso governo che ha tentato di salvare Eluana ha varato una legge per cui i medici potranno denunciare i clandestini bisognosi di cure.
Condannandoli così alla malattia e alla morte, o alla cura casalinga di stregoni che accresceranno le loro piaghe. E c’è da credere che il presidente della Repubblica firmerà quella legge.Viene da gridare anche a me ACQUA, MAMMA, ACQUA!
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