Torino - Tanto è alto, più di un metro e 90, che fatica a stare seduto sulla carrozzella. Tanto è forte che ogni tanto poggia le sue mani di diciassettenne sui braccioli e si alza in sospensione, come un ginnasta agli anelli. Poi, Andrea si concentra sul piede destro: «Vede, non si muove. Non ancora». E per un lunghissimo istante i suoi occhi mobili fissano la scarpa da tennis. Perfettamente immobile. «Ma il sinistro - riprende speranzoso - va». E questa volta il piede fluttua nell’aria. «Sono qui da Natale e ho fatto progressi straordinari».
La stanza dell’unità spinale è grande e luminosa. Sul letto è adagiato un computer, Andrea lo attacca a un filo, che scompare in una presa internet dietro i cuscini, e lo accende: «Adesso ci colleghiamo con la mia classe. La quarta G del liceo scientifico Darwin».
Andrea Macrì era seduto al suo banco la mattina di sabato 22 novembre: «Erano le 11, l’intervallo stava finendo, Vito Scafidi era in piedi a un metro, un metro e mezzo di distanza. All’improvviso ho sentito un boato alle mie spalle e in un attimo mi sono ritrovato disteso per terra. Intorno, fumo, calcinacci e urla. Vito era scomparso sotto le macerie. Vedevo solo la sua nuca. Immobile». Vito Scafidi era già morto, colpito alla testa da un tubo di ghisa pesante circa 200 chili, venuto giù dal controsoffitto che si era sbriciolato. «Ho fatto per alzarmi, ma non ci riuscivo. Come mai?, mi sono chiesto. Ho toccato le gambe, non le sentivo. Ho provato e riprovato, non sentivo nulla dalla cintola in giù. Ho cominciato a gridare: non sento più le gambe. Forse, così mi sono salvato, perché i soccorritori hanno lavorato con grande professionalità».
Sull’elicottero, mentre l’Italia sgomenta apprende che a Rivoli Torinese una scuola è crollata e un ragazzo non c’è più, Andrea riflette: «Rivedevo tutta la mia vita e pensavo: d’ora in poi starò su una carrozzella». Lo stesso tubo che aveva ucciso Vito, aveva colpito Andrea alla schiena: il midollo era schiacciato, una vertebra frantumata.
«Quando mi sono svegliato, dopo tre giorni e due interventi chirurgici, ho avvertito un formicolio che dalla coscia sinistra scendeva verso il ginocchio. I medici mi hanno spiegato che quello era il segnale che aspettavano: le gambe tornavano alla vita. Il recupero non sarà mai al cento per cento, ma io sogno il giorno in cui sarò di nuovo in piedi. E quel formicolio mi ha restituito l’ottimismo».
Ecco, il computer è acceso, la telecamera, installata nell’aula che ora ospita i «profughi» del Darwin, mostra i 17 compagni: «È in corso la lezione di biologia. Tutti i giorni intorno alle 12 mi collego». Le parole del professor Marco Tola arrivano distinte anche in quella camera dell’unità spinale, costruita con i soldi delle Olimpiadi. Ecco, i ragazzi, informati, fanno tutti ciao con la mano. «Intendiamoci - e Andrea sorride - il collegamento è quasi un gioco. Quel che serve di più è altro», e indica la collezione di dvd spediti dai compagni. «Da ieri le lezioni mi vengono inviate addirittura per posta elettronica. E poi i professori vengono qua».
Il padre, Vincenzo Macrì, uno dei fondatori dell’Ulivo a Torino, spiega: «Questo è un progetto pilota della Regione. A quanto mi dicono il primo in Italia: Andrea ogni giorno si sfinisce con quattro ore di fisioterapia, poi alla sera va a scuola». Per la precisione, è la scuola che entra in quell’edificio bianco come la neve. «Seguo un programma ridotto - riprende Andrea - i docenti si alternano per un’ora al giorno da lunedì a venerdì. Fra le 17 e le 18. Tre, quelli di italiano, fisica e inglese, arrivano dalla scuola ospedaliera del Regina Margherita, gli altri sono i miei professori. Certo, il momento degli interrogatori e dei compiti in classe non è ancora arrivato, ma intanto studio».
All’inizio, i medici erano perplessi, poi hanno dato il permesso: «Dalle 10 alle 12 vado in palestra. Gattono, faccio esercizi di stretching, potenzio la muscolatura, sempre seguito dal mio fisioterapista. Poi c’è il collegamento web e il pranzo, al bar o in mensa. Quindi, dalle due alle quattro, una nuova seduta. E tre volte la settimana c’è anche la piscina. È faticoso, molto faticoso. La sera anche un’ora sola di lezione è pesante, ma non ci rinuncio».
Sabato e domenica, riposo. Qualche volta a casa, altrimenti in quella camera, condivisa con un operaio della Fiat rimasto sotto un braccio meccanico. «Tutte le domeniche ricevo la visita dei genitori di Vito. Osservano i miei progressi, tutte le volte si finisce col parlare di lui che non c’è più. Probabilmente, quando sono con me, intravedono ancora il figlio a cui ero molto legato. È difficilissimo accettare che Vito non ci sia più. Quando andavo a scuola, mio papà mi diceva: attento alla strada, attento alla droga, attento ai bulli. Ma attenti al soffitto non ce l’aveva mai raccomandato nessuno».
Il padre, appoggiato al letto, nasconde la commozione dietro gli occhiali: «Mi hanno proposto una candidatura, ma ho rifiutato, almeno per ora. La manutenzione delle scuole spetta alla Provincia, io andrò fino in fondo, anche se la Provincia di Torino è del mio stesso colore. Ma, anzitutto, sono un padre. E come padre mi sarei aspettato almeno una telefonata dal ministro Gelmini. Ha chiamato spesso i genitori di Vito, ma noi no». È l’ora dei saluti. «Andrea, ti lascio dieci euro». «Ma no, me ne bastano cinque, non devo mangiare in un ristorante segnalato dalle guide».
Andrea comincia a spingere con le mani le ruote, la carrozzella parte a razzo, frena solo dentro l’ascensore. Vincenzo Macrì l’accompagna con lo sguardo: «Speriamo che fra qualche mese torni a casa. E l’anno prossimo in quinta G. Con le sue gambe».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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