Tanto per cominciare. È successo tutto così.
Mio padre era Leslie Stephen. Chi volesse può trovare tutto ciò che ha bisogno di sapere sulla famiglia Stephen nel Dictionary of National Biography, e tanto basta. Visse con i suoi quattro figli e due figliastri al 22 di Hyde Park Gate, un gradevole e tranquillo vicolo da cui, allora come ora, si raggiungono i Giardini di Kensington semplicemente attraversando la strada principale. Il civico 22 era vicino alla fine del vicolo e il traffico quasi non lo toccava. Era una casa alta, perché i miei genitori l'avevano sopra elevata, ed era molto spaziosa a suo modo, con un'ampia stanza doppia al pianterreno, una sala da pranzo costruita nel giardino sul retro e uno spazioso studio per mio padre proprio in cima. Ma le stanze erano buie peste. La vite vergine pendeva come uno spesso tendaggio sulla finestra del salotto, la cucina e le altre stanze del seminterrato ricevano luce solo dalle candele o dalle lampade e la vernice era per la maggior parte nera. Fino a poco tempo prima della morte di mio padre non avemmo la luce elettrica e anche allora non dappertutto.
L'atmosfera della casa era profondamente malinconica in quegli anni. C'erano state tragedie su tragedie e adesso mio padre era vecchio e stava morendo. I suoi due figliastri George e Gerald Duckworth (l'editore) e noi quattro più giovani costituivamo tutta la famiglia. Quando mio padre morì, nella primavera del 1904, e la casa risultò decisamente troppo ampia per noi, dovemmo decidere dove vivere. Fu allora che Bloomsbury entrò nelle nostre vite e dopo varie esplorazioni in altri quartieri finalmente prendemmo il 46 di Gordon Square.
Quando dico «noi» intendo solo gli Stephen, cioè io, mio fratello Julian Thoby, mia sorella Virginia e mio fratello Adrian Leslie. Eravamo vicini come età - io, la maggiore, avevo venticinque anni e Adrian ventuno. George Duckworth si sposò più o meno in quel periodo e Gerald era contento di fare vita da scapolo in un appartamento.
Non conoscevamo nessuno che vivesse a Bloomsbury e questa penso che fosse una delle sue attrattive. (...)
Poco dopo questo inizio in Gordon square, credo nell'estate del 1905, Thoby, che era tornato da poco da Cambridge e stava studiando per diventare avvocato, cominciò a frequentare gli amici di Cambridge che stavano iniziando la loro vita londinese. Gli sembrò un buon progetto riceverli in casa una sera alla settimana e, sebbene non credo che in origine gli fosse venuto in mente di includere anche le sorelle nei suoi piani, tuttavia loro erano lì. Così capitò che uno o due di questi amici cominciarono a farsi vedere il giovedì dopo cena. I rinfreschi erano frugali. Mi pare che generalmente ci fosse del whisky da bere, ma alla maggior parte di noi bastavano cioccolata e biscotti. Infatti, siccome tutti avevano mangiato e forse bevuto verso le otto, non sembrava che avessero bisogno di altro alle nove o tra le nove e mezzanotte. A quel punto forse, esausti per la conversazione, seria o frivola che fosse stata, gradivano un po' di cibo. Era una delle cose che faceva sì che il trattenimento a quei tempi fosse poco costoso.
Tra quelli che venivano relativamente spesso c'erano Saxon Sydney-Turner, che all'epoca viveva in un appartamento in Great Ormond street, Lytton Strachey, che abitava con la propria famiglia ad Hampstead, Clive Bell che arrivava dal suo bell'appartamento nella zona del Temple, Charles Tennyson, Hilton Young, Desmond MacCarthy, Theodore Llewely Davies, Robin Mayor. Veniva anche un buon numero di strane creature che difficilmente credo possano essere considerate parte di «Bloomsbury», anzi sarebbero state orripilate dall'idea. Qualche anziano amico di famiglia o qualche giovane della nostra generazione a volte facevano delle brevi visite, anche i nostri fratellastri, i Duckworth, occasionalmente ci facevano l'onore della loro presenza. Ma non approvavano del tutto il nostro stile di vita e mi ricordo lo sdegno di Gerald Duckworth quando Thoby cercò di persuaderlo che poteva essere conveniente pubblicare i lavori di Lytton Strachey, Clive Bell e di altri (perché secondo Thoby tutti i suoi amici erano geni). Ma non erano solo i Duckworth a disapprovare. È stato come se, non appena cominciò a esistere e a prendere vita, la nostra innocentissima associazione avesse suscitato ostilità. Forse è così che capita sempre. Ogni tipo di cricca è schernita da quelli che non ne fanno parte, com'è prevedibile, e senza dubbio per le abitudini del tempo il nostro modo di comportarci nel nostro ambiente era abbastanza strano da scatenare le critiche.
Di certo mi ricordo che mi è stato domandato con curiosità da un gruppo di adulti e giovani durante una banale festicciola se davvero stavamo alzati fino alle ore piccole a chiacchierare con dei giovanotti. Di che cosa parlavamo? Chi erano questi giovanotti? Eccetera, eccetera. Risero, ma comunque con un tono di disapprovazione.
Di che cosa parlavamo? L'unica risposta onesta è: di qualunque cosa ci passasse per la testa. Naturalmente i giovanotti provenienti da Cambridge avevano la testa piena della «natura del bene». Io non avevo letto il loro profeta G. E. Moore, né credo l'avesse fatto Virginia, ma questo non impediva di cercare di scoprire cosa gli altri pensassero del bene o di qualsiasi altra cosa. I giovanotti non avevano nemmeno loro le idee chiare e così non erano dispiaciuti alla prospettiva di discuterne con delle signorine che magari vedevano le cose da una differente angolazione. Comunque è vero che parlavamo, e fino alle ore piccole. Non sempre, è ovvio, della natura del bene. A volte di libri o di quadri o di qualsiasi cosa ci venisse in mente, oppure ci raccontavamo le imprese e le avventure della giornata.
Non c'era niente di strano oserei dire, se non che eravamo giovani, liberi, alle prese con una nuova vita in un nuovo quartiere, senza adulti a cui rendere conto di azioni o idee, e questo non era usuale in una compagnia mista della nostra classe sociale: perché allora le classi sociali esistevano, eccome. Ovviamente il fatto che la compagnia includesse gente come Lytton Strachey o Virginia faceva differenza, ma credo che ce ne rendessimo a malapena conto.© 2017 Donzelli editore
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