In Iran fa paura anche un colpo di testa al pallone

La libertà finisce anche quando non puoi più colpire un pallone di testa. Le giocatrici di calcio dell’Iran non lo faranno più. Per paura di qualcuno, non di qualcosa. Non è il pallone che fa male, è il terrore che succeda quello che è successo qualche giorno fa: la palla che fa scivolare il copricapo con cui sono costrette a giocare, un pezzettino di capelli si vede. La normalità per chiunque altro al mondo è un problema per chi sa che quella ciocca innocente possa valere un rimprovero, o forse di più una punizione.
Le foto raccontano molto di più di quello che fanno vedere. Dicono che spesso ci dimentichiamo delle donne che vivono nello spavento continuo, si muovono sperando che non ci sia vento, che nulla alzi i loro veli. Uno, due, tre: la sequenza contiene il fatto, ma soprattutto la reazione. Perché ormai non ci colpisce neanche più che delle atlete debbano giocare a calcio tutte coperte: nessuno s’indigna, nessuno protesta, nessuno vieta. La Fifa una volta voleva addirittura che le donne giocassero con le gonne per attirare più pubblico e adesso tace di fronte alle divise da sciatrici che alcuni paesi impongono alle loro sportive. Ecco, ammesso che si possa accettare una cosa così, come fai ad accettare quello che queste foto mostrano così chiaramente? La ragazza iraniana che colpisce di testa facendo cadere inavvertitamente il copricapo si gira di spalle alla telecamera per non farsi vedere, poi soprattutto, viene soccorsa immediatamente dalle compagne che cercano di coprirla. È l’istinto di protezione, una solidarietà sincera, immediata, non richiesta eppure così angosciante. Mostra l’ansia, il tormento, l’incubo delle donne che non sono libere di essere normali.
Il mondo vuole trattare con l’Iran, vuole parlare con Teheran, pensa di convincere il governo di Ahmadinejad a smetterla di essere una minaccia per l’Occidente però sta zitto di fronte a una cosa del genere. Il silenzio è l’imbarazzo collettivo e contemporaneamente il lasciapassare dell’oppressione. È la complicità. È assenso implicito ai soprusi e al clima di paura che Teheran fa vivere ai suoi cittadini. Ecco perché è terrorizzata l’espressione del volto della giocatrice che aiuta la compagna a coprirsi prima che sia troppo tardi. Sa che se qualcuno davanti alla tv vede quelle immagini è finita: la compagna sarà giudicata immorale e quindi da punire il fatto di aver perso il copricapo in un’azione da gioco. Il disonore della normalità. Quell’espressione preoccupata è l’aiuto che queste ragazze chiedono senza la possibilità di chiederlo usando la voce. Ecco, la risposta è il silenzio. Non c’è censura globale, non c’è neanche il rimbalzo su internet di immagini così agghiaccianti. Solo il sito di Repubblica ha il merito di metterle in rete. Poi il vuoto. Poi niente. È già un miracolo che qualcuno non abbia invocato le legittime tradizioni culturali e religiose dell’Iran. Come per Alì Karimi, anche lui calciatore iraniano, anzi il più forte calciatore iraniano contemporaneo: licenziato dalla sua squadra, lo Steel Azin di Teheran perché ha bevuto un bicchiere d’acqua durante il Ramadan e riabilitato solo dopo che i compagni l’hanno difeso in blocco: «Abbiamo mangiato e bevuto tutti». Prima della retromarcia Karimi ha dovuto vedere anche la tv pubblica che mostrava a tutto il paese il peggio della sua carriera: gol sbagliati, falli, errori. Come a dire: ecco chi è questo giocatore che non rispetta le regole e non si comporta come dovrebbe.
Karimi e la sua collega donna dovrebbero essere i simboli della libertà che non c’è. La rivoluzione verde, ha vinto il silenziatore imposto, ha stravinto la repressione. La prova è questa sequenza che fa paura per la paura che le si legge oltre la superficie. Non c’è nulla di naturale, nulla di accettabile, nulla di nulla.

C’è solo la dimostrazione che vivere in Iran significa avere paura di colpire una palla di testa anche se giochi a pallone, o di bere un bicchiere d’acqua d’estate dopo un allenamento, dopo una sudata, dopo qualunque cosa. Non c’è religione, non c’è cultura, non c’è niente. C’è terrore, solo quello.

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