Irap, le altalenanti decisioni delle Commissioni tributarie

Con l’introduzione dell’Irap nell’ordinamento italiano nel 1998 è sorta una consistente giurisprudenza motivata inizialmente dalla violazione dei principi di uguaglianza e di capacità contributiva con riferimento agli art. 3 e 53 della Costituzione.
Sul fronte nazionale la questione si presenta quanto mai confusa. Vi sono infatti numerose controversie pendenti avanti alle Commissioni tributarie provinciali e regionali per tutte le questioni di merito, sia in relazione alla presunta illegittimità comunitaria, sia in relazione a quei professionisti «non autonomamente organizzati», i quali non sarebbero soggetti passivi d’imposta. Questioni che vengono valutate caso per caso in ordine alla prima pronuncia di presunta incostituzionalità da parte della Corte costituzionale con sentenza n. 156 del 10 maggio 2001. Mentre la Corte di cassazione rinvia a nuovo ruolo le cause Irap per i professionisti in attesa della decisione dei giudici della Corte di giustizia europea, le Commissioni tributarie provinciali e regionali, anziché scegliere la via della sospensione o rinvio a nuovo ruolo, affrontano la questione in modo altalenante. Va comunque detto che, per la sua caratteristica istitutiva, l’Irap non si discosta molto dall’Iva, non solo perché il presupposto del tributo è dato dall’effettuazione delle cessioni di beni o prestazioni di servizi, ma anche dal fatto che essa ha come base imponibile la differenza tra ricavi o compensi e costi sostenuti.
È proprio la caratteristica impositiva di tassa sulla cifra d’affari attuata dall’ordinamento italiano che ha fatto sorgere una questione pregiudiziale introdotta dalla Commissione tributaria di Cremona su ricorso proposto dalla Banca popolare della stessa città, per presunta incompatibilità della disciplina Irap con le disposizioni dell’art. 33 della sesta direttiva Cee del 17 maggio 1977 per la quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di giustizia europea.
La direttiva vieta, in materia di Iva, l’introduzione e il mantenimento di qualsiasi imposta nell’ordinamento nazionale dei Paesi facenti parte della Comunità che abbia appunto il carattere d’imposta sulla cifra d’affari. L’obiettivo è quello di armonizzare la legislazione degli Stati membri nell’ambito delle imposte sulle entrate, di conseguire l’eguaglianza di tassazione del sistema dell’Iva con l’eliminazione delle differenti imposte vigenti nei diversi Paesi europei e soprattutto di far nascere un mercato comune avente caratteristiche identiche a quello di un mercato interno attraverso l’abolizione delle sostanziali differenze di oneri capaci di alterare la concorrenza e ostacolare gli scambi; a tale scopo è stata in precedenza opportunamente istituita la Seconda direttiva Cee dell’11 aprile 1967.
Questa impostazione dettata dalla normativa comunitaria consente l’istituzione di imposte e tasse unicamente nei casi in cui non presentino la natura di imposte sulle entrate.
In ossequio, quindi, all’obiettivo prescelto dal legislatore comunitario, sono stati definiti i criteri che devono essere individuati nel produrre provvedimenti fiscali in uno Stato membro. In merito alla pronuncia sulla presunta incompatibilità della disciplina dell’Irap con la normativa comunitaria, il 16 novembre 2004 presso la Corte di giustizia europea si è tenuta la prima udienza sulla nota controversia, mentre il 17 marzo 2005 sono state depositate le conclusioni del Procuratore generale Jacobs.


La decisione definitiva della Corte europea sulla legittimità o meno dell’Irap potrebbe avere diversi effetti, in quanto in caso di sconfitta del fisco italiano si porrà fine alla controversa imposta rendendola inapplicabile non solo ai professionisti autonomamente organizzati ma anche alle imprese e a tutte le forme di società con ripercussioni su similari prelievi per altre nazioni e con conseguenze pesanti per le casse dello Stato qualora detta sentenza avesse valore retroattivo estensibile ai quatto anni d’imposta da rimborsare agli aventi diritto.

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